una statua a Roma, inaugurata nel Parco Ravizza del quartiere Monteverde. Fonte: Cosenzainforma |
Angelo come Hachiko. Dove Hachiko è diventato simbolo della dedizione lunga una vita, ma anche del rispetto e della riconoscenza di individui e di una intera cittadinanza, di un popolo - quello giapponese - che fonda la sua civiltà su concetti molto simili a questi.
Dove Angelo è diventato simbolo della ennesima irrilevanza e povertà etica ed empatica di individui e di una intera cittadinanza, di un popolo - quello italiano - per i quali un animale è oggetto di noncuranza, superficialità, impazienza, prepotenza, oppressione, crudeltà inflitta, tortura, sadismo; ma anche della grande fiducia che ogni cane è potenzialmente capace di regalare a ogni umano, anche quello meno degno - quello degno di essere appellato solo come 'tizio', o 'mostro'.
Ieri, la sentenza del processo di Angelo ti / ci è esplosa tra le mani, e i social forum sono diventati ridondanti di essa e per essa. Parole e idee, indignazione insieme a riflessioni. Conti di ritornarci, prestissimo, grazie all'idea che hai avuto - di chiedere ad alcuni tuoi amici e contatti davvero esperti, attenti, nei confronti dell'universo canino, un loro parere, specialmente sui risvolti della sentenza.
Sul fatto che i quattro assassini sconteranno la pena svolgendo lavoro socialmente utile presso una struttura canile o rifugio. Presumi, della loro zona.
Una decisione controversa, dibattuta, sulla quale tornerai. Adesso, in questo post, vuoi fare una cosa sola: immaginare questa sentenza nella sua attuazione, nel suo svolgimento.
Infatti, ti sei chiesto: se tu avessi un rifugio, cosa penseresti se ti chiedessero di farci svolgere la riabilitazione lunga sei mesi, dei quattro 'tizi'?
Intanto, immaginiamo una cornice: poiché esistono, e se ne parla, e vengono divulgati e fatti conoscere, i canili e i rifugi cosiddetti 3.0 (quelli zooantropologici, di Luca Spennacchio, di Roberto Marchesini, di Simone dalla Valle, per intenderci; e, certo, anche di altri, che tuttavia non conosci, per tuoi limiti), ritieni che potrebbero essere solamente queste, le strutture adatte a sopportare una responsabilità così grave. Non le strutture coraggiose e generose, che rischierebbero di cedere e soffrire per il carico di male e crudeltà che i quattro assassini si portano appiccicato alla pelle, sotto i loro vestiti. Tanto meno i canili privati, dove è sempre possibile 'truccare' e barare, a spese dei cani: qui dentro, i quattro potrebbero addirittura essere liberi di spadroneggiare, ma di sicuro - senza arrivare a tanto - potrebbero non dover affrontare nemmeno un'ora di lavoro. E dunque la 'pena' sarebbe inutile, andando sprecata.
No.
I canili come presidio zooantropologico ci sono, esistono. Facciamo finta che - anche a uso giudiziario - ne esista un elenco certificato: sarebbero i luoghi unici dove far scontare questo tipo di sentenze a questo tipo di criminali (e qui, ne sei cosciente, si apre un punto vulnerabile assai, sui diversi pesi e misure, sui doppi criteri di giudizio, quando la vittima è un umano o quando invece è un altro animale; ma ne riparleremo).
Queste strutture, già adesso, hanno un organigramma: esiste una divisione dei compiti, una distribuzione delle mansioni e delle responsabilità, certo sulla base delle attitudini e delle abilità di ciascuno. Ma non succede che tutti facciano tutto - né che lo vogliano fare: perché non ne sono capaci. Il motivo di questa organizzazione è per dare ai cani ogni tipo di vantaggio, tutela, benessere, cura e occasione di ritorno tra umani disposti ad accudirli, a esserne famiglia per la vita.
In queste strutture, i volontari hanno fatto e fanno corsi per apprendere come svolgere i loro compiti, assimilano le 'buone pratiche', affrontano almeno una esplorazione della zooantropologia, della cinofilosofia, dell'etologia canina. Questo, di base, imprescindibile: si possono aggiungere altre capacità e abilità, altre competenze, negli anni, sul campo. Ma sempre con la supervisione di chi è più presente e più a lungo, più capace o esperto. Perché, sempre non si perde di vista l'obiettivo: il cane, nella sua completezza e dignità di essere individuale, unico, consapevole, che merita rispetto e dignità.
Dici sempre che hai avuto la fortuna di avere un simile primo incontro con i canili: il primo amore non si scorda mai, e non se ne dimenticano nemmeno le asperità.
Perciò oggi ricordi con gratitudine e con consapevole prospettiva di lungo termine, le tue prime esperienze con la raccolta delle cacche.
I rifugi hanno aree di sgambamento: dove i cani possono correre, annusare, sdraiarsi, giocare o conoscersi tra loro, se lo desiderano, oppure isolarsi e dormire se lo preferiscono. Queste zone, verdi e alberate, devono essere libere dalle cacche. E perciò vanno costantemente rastrellate, attraversate, con paletta e secchiello, come se si fosse sminatori. Come prima cosa a inizio della giornata, poi in vari momenti della giornata in rifugio; e tra le ultime cose della sera. Dalla cacca dei cani si impara molto, oltre al loro stato di salute psicofisico. Poi. Si impara su se stessi: la propria capacità di concentrazione, di adattamento, la prova e lo stress delle proprie soglie di stress e di tolleranza alle situazioni di scacco e di obbligo. La cacca può essere zen: una pratica utile a centrare se stessi, utile a ripensare il cane, a rivederlo e riviverlo, a riconsiderarlo. Sollevi lo sguardo dal prato e incroci gli occhi di un cane al di là del cancello, che magari ti osserva ed è interessato a te. Questo tutti i giorni, giorno dopo giorno, per settimane.
Quindi, ecco cosa faresti fare tu, nel 'tuo' rifugio', ai quattro: raccogliere merda, fin da subito. Non come umiliazione, ma perché raccogliere merda serve - alcuni dei modi hai provato a raccontarli proprio adesso.
Naturalmente, pensi, i quattro non starebbero MAI soli con i cani: a fianco a loro ci sarebbe SEMPRE almeno uno o due supervisori. E, poiché si tratterebbe di volontari che in questo modo verrebbero sottratti a compiti più utili per l'andamento del rifugio e il benessere dei cani - oltre che di sicuro più gratificanti sotto il profilo delle relazioni umane: sei abbastanza sicuro che stare a contatto con uno qualsiasi di questi quattro sia ben più schifoso e rivoltante che raccogliere una qualsiasi caccona - credi che dovrebbe essere previsto un gettone di risarcimento. Una cifra di rimborso per il rifugio, che si vedrebbe obbligato a sottrarre risorse umane a compiti di cura, per svolgere compiti di controllo e sorveglianza. Una cifra forfettaria, a fondo perduto - ché ci sarebbe a monte la garanzia che in questi rifugi quella risorsa economica extra verrebbe impiegata esclusivamente in obiettivi cinofili.
(Ecco, magari, se esistesse questo albo dei rifugi 'giudiziari', il meccanismo per coinvolgerli volta per volta potrebbe essere quello del sorteggio, o magari della rotazione; ma questi sono dettagli che non vale tempo studiare qui, in questo pur sempre immaginifico scenario).
Raccogliere merda per sei mesi, però, non sarebbe produttivo né forse coerente con lo spirito della sentenza - per come lo hai capito tu, ma su questo ci torniamo; qui stiamo scrivendo altre cose. Non è il caso di scomodare Cesare Beccaria, per dire che in questi sei mesi ci sarebbe tutto il tempo per far fare ai quattro, corsi di etologia, di zooantropologia e di tutto quello che potrebbe sembrare utile a tentare di cambiare la loro mente. Nella prospettiva della riformazione e rieducazione.
Gli faresti persino leggere dei libri, e prendere appunti e alla fine scrivere un tema!
Che tu abbia robuste riserve sulla realistica capacità di maturare in quella direzione, da parte dei quattro torturatori, per il momento non è importante.
Ultima domanda: faresti avvicinare i quattro ai cani?
Premessa: i cani in un rifugio, ci sono arrivati sempre dopo esperienze negative. Senza eccezione: anche il 'semplice' abbandono di punto in bianco, viene vissuto da ogni cane come una angosciosa tragedia, un evento catastrofico capace di gettare il cane nella depressione, nella tristezza, nel malumore, nella non voglia di vivere, nella paura, nella insicurezza, nella fobia, nell'ansia. Un vero e proprio shock post-traumatico.
Quindi, chi più chi meno, tutti i cani ospiti di un rifugio - ricordate sempre di che tipo di rifugio stai parlando - sono individui fragili dal punto di vista emotivo. Basta un nulla - davvero un nulla: uno sguardo superficiale, un gesto casuale, uno stato d'animo carico di sensazioni negative da parte dell'umano - per aggravare quella fragilità, col rischio di spezzare ancora la loro faticosamente ricostruita, timida fiducia.
Perciò? Perciò - pur facendo fare ai quattro tutta una serie di attività che hanno a che fare intorno al cane - fino ad arrivare a occasioni davvero stimolanti di apprendimento, di esperienza, di osservazione - non li farei interagire MAI con nessuno degli ospiti del rifugio.
Magari, forse, con un supporto robusto di educatori - altre risorse per il rifugio dirottate! - li farei entrare in contatto con cani che non vivono nel rifugio, ma sono individui forti, sani, sicuri, equilibrati, alleati di uno o più umani con le medesime caratteristiche caratteriali - e che sono capaci di scegliere come, dove, quando e quanta relazione iniziare o interrompere con qualsivoglia umano.
I Cani Maestri. Questo perché, se il fine è riabilitativo, alla fine - ma solo alla fine - dovrebbe essere creata l'occasione per i quattro tizi, di vedere davvero chi è un cane - e comprendere l'enorme mostruosità che hanno compiuto.
Se poi lo capiranno, questo - per ora - rimane un mistero.
- 1. continua
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