fonte della foto: Facebook, da Internet
Non so da dove né come iniziare.Perché oggi, ho accarezzato e baciato
un cervo, davanti ai cacciatori che lo avevano appena ucciso coi loro
fucili dotati di telemetro, in Valsesia. Le emozioni sono mille, i pensieri duemila, tutti intrecciati: e così, i dubbi e le domande sono tremila.
Forse
se inizio dal principio. La Valsesia è una valle chiusa. I suoi
abitanti, nei secoli, hanno acquisito durezza di carattere e di cuore,
che nel XXI secolo, non si è mitigata, nemmeno nei più giovani.
Eppure,
ho amato e amo questi LUOGHI, anche se faccio grande fatica con le
persone che li abitano – e questo è anche un mio punto debole, ne sono
cosciente.
Proprio per questo, ho passato molti significativi anni
della mia vita tra questi boschi. Anche questa mattina, ero a passeggio
con i miei cani. Eravamo
vicino alla riva di un fiume: prato innevato sotto il sole lontano del
mezzodì di dicembre, grandi sassi della riva, e davanti a noi boschi
sulle pendici già in ombra. Si può pensare qualcosa di più rinfrancante?
Di
colpo. A distanza non troppo breve,risuonano quattro potenti
detonazioni: tutte le rocce delle montagne intorno, coi tronchi dei loro
alberi, e i rami suoi tronchi, e gli aghi e il fogliame sui rami, e gli
animali tra i tronchi, i rami e le radici, ne risuonano, ogni volta, a
lungo. Tremano, come trema il mio animo, perché capisco al volo che cosa
ho udito: spari di fucile. Vorrei che fossero andati a vuoto, ma scoprirò
a breve che non è stato così.
Vicino alla bella
passeggiata – che tale è per una persona di città, e chissà invece che
cosa rappresenta per un montanaro che vive qui tutto l'anno – c'è
un accogliente pub – che definire bar è riduttivo, e chiamare locanda è
fuorviante. Lasciati i cani in auto, entro per bere un caffè. Di lì a
poco, arriva il pick up dei cacciatori. Col cervo disteso e legato con le
corde.
Sono quattro, o cinque, li conosco quasi tutti; solo uno, dal modo di muoversi e di parlare, non sembra originario del posto.
Se
sul subito mi rifiuto di uscire, quasi da un secondo all'altro, invece,
cambio idea: penso che lo devo al cervo, almeno un gesto di rispetto, di
saluto. Mi faccio coraggio. Esco. Sono vigile, mi accorgo di notare ogni
minimo dettaglio. Mi avvicino al pick up, in fondo al parcheggio della
piccola piazza. Mi vedono, sanno chi sono, non mi bloccano, ma nemmeno mi
fanno passare. Ridono. Un bambino che di sicuro frequenta già le
elementari, è arrampicato sulla sponda, spinge il torace inerte del cervo
con la piccola mano. Ride. Guarda suo papà, che è tra i cacciatori. È
un bel bambino, e conosco suo padre. Chiedo permesso a uno dei cacciatori,
che mi volta le spalle e intanto afferra il palco di corna e muove la
testa del cervo, come fosse un pupazzo. Chiedo permesso, si scosta e così
posso avvicinarmi al cervo. Noto le ferite, varie, sul corpo non così
grande. Sento in lontananza, che parlano di come lo hanno braccato e
sparato, di quanto può pesare e valere, di quanta carne, di cosa fare col
palco, e altri discorsi (prezzi, leggi, tasse, qui tutto è misurato con
questi criteri)... ma le loro parole sono in sottofondo. Guardo solo lui, vorrei che
potesse vedermi anche lui. Lo accarezzo, più volte. Poi decido che non
basta, e perciò di baciarlo in fronte. Il pick up è molto alto, riesco
a baciare la mia mano, e appoggio il bacio sulla sua fronte, gli sussurro
parole. Sento uno dei cacciatori, che ben mi conosce, esclamare qualcosa,
ma è in dialetto che non comprendo. Alzo gli occhi, mi accorgo che il
bambino mi guarda con gli occhi sgranati.
È tutto. Il fatto è tutto qui. Ma mi scardina dentro e pensieri escono a valanga. Come
doveva essere bello questo cervo, stamattina, all'alba, col ghiaccio che
esce dalle narici nel respiro, gli occhi attenti, le orecchie che si
muovono; lui sente il calore del proprio corpo, è giovane, la luce sta
tornando nel bosco, perciò è felice. Ha fame e inizia a cercare cibo. Ce
n'è poco, forse perciò si avventura vicino ai luoghi che puzzano delle
cose dei duegambe-senza-corna, anche se ciò lo agita. (scoprirò che sono
due settimane che gli danno la caccia: in 4, o più, coi telemetri,
coi mirini, nutriti, loro, e al caldo... vigliacchi: credo che lo abbiano sorpreso
tradendo la sua ingenuità della gioventù).
Come si sente vivo!
Chissà se c'erano altri cervi con lui, chissà se invece era solo, ma
fiducioso nelle sue forze, e sentiva nell'aria messaggi odorosi di
compagni della sua specie.
Tutto questo, agli umani col
fucile e gli occhi piccoli e le rughe nelle facce tirchie e tirate,
specchio di cuori avidi e gelidi, non interessa. Loro lo vedono come
un'pezzo' di qualcosa da smembrare, mangiare, vendere,
scaricare, gettare.
Ho già detto anche troppo. Mi
fermo, non perché non ci siano altri mille pensieri, ma perché di più
di così, vorrebbe dire togliere dignità e rispetto a questo cervo, e spazio al
mio desiderio di poterlo salutare col mio addio dal profondo della mia
anima.
Ricordo solo – per chiudere con l'incanto e la
speranza - un altro Grande Cervo che vidi anni fa: io ero in auto, lui era
appena fuori da una galleria che sbocca sul tratto finale e rettilineo
della valle. Grande al chiaro di luna, davvero maestoso. Senza paura, mi
guarda. Si allontana, procede senza fretta, seguito dalla sua compagna e dai loro
due figli. Torna nel bosco: una incarnazione magica.
Postilla: ho scritto questa nota di getto, incerto se pubblicarla, ma incoraggiato a farlo da amiche preziose. Ha suscitato commozione su Facebook, e si è diffusa tantissimo in poche ore. Dico questo, non per vanto, ma perché mi conforta interpretarlo come un segnale di speranza.. Un'amica ha detto una cosa che mi ha fatto molto pensare: che in qualche modo il cervo ha "scelto" questa fine (se loro percepiscono altri mondi e hanno un senso diverso del divenire), per incontrarmi, per incrociare il mio destino e che io vedessi quanto è cruenta la caccia, dopo averne solo e sempre parlato. Così, non devo lasciare tutto ciò come inaccaduto... e sono davvero grato a questo nobile individuo.