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giovedì 23 marzo 2017

Il lupo delle Valli Ticinesi

@ keystone

Da millenni, ormai, homo si è considerato separato dall'interezza degli altri viventi, si è ritagliato uno spazio solipsistico, sterilizzato e chiuso ermeticamente - soprattutto a livello di rappresentazione di se stessi e della realtà circostante. Una delle conseguenze - forse LA conseguenza, di sicuro tra le più gravi e foriere di catastrofi - è la reificazione degli esseri viventi, la cancellazione delle individualità, l'omologazione, livellamento, delle diversità. E, quindi, la loro (s)oppressione, l'aggressione che viene mossa nei loro confronti, quando sono inconsapevoli colpevoli della violazione di regole decise unilateralmente dagli umani, con pesante squilibrio della distribuzione dei vantaggi e delle (non)reciprocità. Tutto questo linguaggio difficile - che hai scoperto leggendo i testi di molti autori che se ne occupano - per dire che troppo spesso gli animali sono marchiati come 'invasori', 'minaccia', da 'eliminare', 'eradicare'. La pena - già di per sé decisione iniqua di inarrivabile prepotenza - è solo una: la morte.

Per esempio...

Questo bel lupo non ha un nome, ma solo una sigla. Non è più un individuo, ma un pezzo intercambiabile del modello astratto lupino. Il suo 'abbattimento' (una esecuzione col nome che le viene dato quando si parla di animali non umani) è stato deciso dalle massime autorità. Il DNA lo ha inchiodato: il lupo M è un 'predatore', che ha ucciso 32 volte. Trentadue vittime, non di un serial killer, ma di un cacciatore naturale che si è procurato cibo nel modo principale che conosce, in un ambiente che gli è ostile e che gli sta sempre più stretto, dove le risorse per lui sono sempre meno accessibili e abbondanti. Chi sono le sue vittime? Per le autorità, sono, in realtà, altre 'cose', a uso e consumo degli umani: sono 'capi di bestiame', sono 'animali da reddito': la loro vita non vale per se stessa o per loro, né è di loro proprietà. La loro vita è stata spossessata dagli umani, che mentre sembrano preoccuparsi della loro incolumità e sicurezza, si stanno in realtà preoccupando dei loro calcoli e profitti economici e commerciali.

In un susseguirsi dettagliatissimo di cifre, statistiche, elenchi e numerazioni (in questo senso, forse, nella burocratizzazione anodina del flusso della vita, del suoi mescolare insieme morte e sopravvivenza, cura e fuga, sta l'intrinseco 'nazismo' bashevis-singeriano delle società umane nei confronti degli alteranimali non umani), scopriamo che il lupo M ha superato la soglia massima consentita a un predatore in un mese, ed è perciò diventato un fuorilegge, un ladro, un rapinatore. Perché abbia compiuto così tante uccisioni, a nessuno interessa, così come interessa a nessuno della vita degli animali che ha ucciso. Quelle vite 'contano', - sono contabilizzate - solo in un bilancio di impresa. Sono dei segni meno, delle perdite, che vanno arginate per non intaccare il profitto.

La sua condanna a morte ha un nome: articolo 9bis dell'Ordinanza federale sulla caccia e la protezione dei mammiferi e uccelli selvatici (OCP) (vedere le parole 'caccia' e 'protezione' nella stessa frase, ti procura sempre una strana sgradevole vertigine, una sorta di labirintite).

Ci sarà la supervisione dei guardiacaccia.
Il lupo M deve riuscire a nascondersi per 60 giorni: dopo i quali, l'autorizzazione allo 'sparate a vista per uccidere' contro di lui, a quanto apre, perderà di validità...

mercoledì 28 gennaio 2015

In quelle tenebre

Gitta Sereny a colloquio con Franz Stangl - Fonte: Levantium


Mi pare sia stato Umberto Eco a dire una volta - scrivendolo - che "i libri si parlano tra di loro".
Questo sembra essere accaduto veramente, tra i libri - e i loro autori - di cui dico qui sotto.
Tanti anni fa, lo scrittore Isaac Bashevis Singer, scrisse il racconto "L'uomo che scriveva lettere". Il protagonista del racconto è un anziano professore; nel suo appartamento vive una topolina, con la quale il professore stringe amicizia, in un patto di reciproca fiducia e assistenza. Quando il professore si ammala, si preoccupa per la topolina, si chiede se la donna che ha iniziato a prendersi cura di lui, abbia badato anche alla topolina, e arriva a fare questa riflessione: «Si sono convinti che l'uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno.»

La frase mi è tornata in mente grazie al recupero che ne ha fatto il blog Slec.

Per inciso, ci tengo a dire che questo non è l'unico racconto dove Singer - che era anche vegetariano - manifesta grande empatia nei confronti degli altri animali.

Nel 2002, Charles Patterson scrive il saggio "Un'eterna Treblinka", ispirandosi proprio alla frase del racconto di Singer.
Inoltre, Patterson cita anche Theodore Adorno, al quale è attribuita la frase: «Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali. »

Nel saggio di Patterson, che affianca Olocausto e sterminio degli animali, ci sono molte testimonianze di sopravvisuti ai lager. Tra di loro, Edgar Kupfer-Koberwitz, scrittore, memorialista e pacifista tedesco, che in lager riuscì a scrivere di nascosto una notevole quantità di appunti, sotto forma di lettere a un amico, pubblicati al termine della guerra col titolo Animal brothers.
Viene citato anche da Lorenzo Guadagnucci nel suo libro Una voce da Dachau in Restiamo animali, (Milano, Terre di mezzo, 2012).
Kupfer Koberwitz, scrisse tra l'altro (riportato da Patterson): « Penso che finché l'uomo torturerà e ucciderà gli animali, torturerà e ucciderà anche gli esseri umani – e vi saranno le guerre – perché uccidere viene praticato e appreso poco a poco. Dovremmo cercare di superare le nostre piccole insensibili crudeltà, cercare di evitarle e cercare di bandirle. Ma siamo ancora troppo osservanti delle nostre tradizioni. E le tradizioni sono come una salsa grassa e saporita, che ci fa ingoiare la nostra insensibilità egoista senza farci accorgere di quanto questa sia amara».

Sempre in Patterson, si parla anche di Gitta Sereny, che  scrisse il libro In quelle tenebre, psicobiografia frutto di più di 60 ore di colloqui con Franz Stangl, il comandante dei campi di sterminio a Treblinka e Sobibor,  detenuto allora nella prigione di Dusseldorf, dove stava scontando l'ergastolo. Per il libro, Sereny intervistò molte persone che fanno da corollario al racconto, spesso opaco, molto reticente e vittimizzante di Stangl. Nell'ultimo incontro con la Sereny, Stangl ammise finalmente di condividere la propria colpa per l'Olocausto. Morì meno di 24 ore dopo.

Nel 2005, ho letto per la prima volta il libro di Patterson - è stato anche l'anno in cui ho letto "Liberazione animale", di Peter Singer e tutti i racconti di Isaac Bashevis S., in una splendida edizione dei Meridiani - una bella annata libraria personale, quella del 2005!
Nel 2009 ho finalmente trovato e letto il libro di Gitta Sereny, con un atteggiamento quasi incredulo di fronte al 'personaggio' Stangl, e alla eventualità che potesse aver davvero raccontato quello che ho riportato qui sotto. Buona lettura.

IN QUELLE TENEBRE
GITTA SERENY
(le sottolineature sono mie)

“Visto che li avreste uccisi tutti”, dissi a Stangl “che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?”.
“Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni” disse. “Per rendergli possibile fare ciò che facevano”. E questo credo sia vero.
Con lo sterminio di questi milioni di uomini, donne e bambini, i nazisti commisero un assassinio non soltanto fisico ma spirituale: su quelli che uccisero, su quelli che eseguirono le uccisioni, su quelli che sapevano che venivano eseguite le uccisioni, e anche, in certa misura, su molti altri, su tutti noi che a quell’epoca eravamo esseri vivi e pensanti.
[p.135-136]

Richard Glazar, come avevo ormai capito, ha una straordinaria capacità di rievocazione, e di relativo distacco – cose d’importanza essenziale affinché questa particolare storia possa essere sopportale – e, in senso più lato, abbia valore.
[p.242]

Le centinaia di migliaia di ebrei orientali [Polonia orientale, Russia] … erano sempre vissuti – sia per scelta, sia per necessità – separati dal grosso della popolazione … si riassumevano in quest'unica identità. … al di fuori di questo non c'era altro che paura: la tradizionale e innata paura dei pogrom che pesavano sui loro destini da secoli. […] paura … fatalismo. […] gli ebrei occidentali [Cecoslovacchia, Ungheria, Austria, Olanda, Francia, Germania] … sapevano, in teoria, dei crudeli pogrom, ma non li avevano mai subiti. È stata una distorta interpretazione di questo fatalismo – visto come una sorta di mistico desiderio di morte – che permise ad alcuni di considerare le vittime della 'Soluzione Finale' come un branco di 'pecore che si lasciarono condurre al macello'.

Il fatto è che a quel tempo, né gli ebrei orientali né quelli occidentali potevano concepire che ciò che si trovavano ad affrontare fosse vero, e i nazisti dimostrarono una spaventosa scaltrezza nell'avertire le essenziali differenze tra la personalità dei due gruppi [Heydrich, i dirigenti 'scientifici' del T4, gli psichiatri professor Heyde e Nitsche]. Costoro riconobbero agli ebrei occidentali la capacità di afferrare individualmente la mostruosa verità, e individualmente di resistervi, e pertanto ordinarono di prendere le massime precauzioni per ingannarli e tenerli buoni finché, nudi, in file di cinque, correndo sotto le sferzate, non fossero resi del tutto incapaci di resistenza. E con la stessa acutezza si resero conto che queste precauzioni non erano necessarie con gli ebrei orientali, i quali, in certa misura, erano preparati al terrore. Qui, tutto ciò che occorreva era di creare isterismo di massa. “Arrivavano, ed erano morti nel giro di due ore” disse Stangl. E queste due ore erano riempite da una tale quantità di violenza di massa sottilmente organizzata, che privava quelle centinaia di migliaia di persone di qualsiasi possibilità di sostare e di riflettere. [p.267,268]

“Sarebbe giusto dire che alla fine sentisse che in realtà quella gente non erano esseri umani?”.
“Una volta, anni dopo, in Brasile, ero in viaggio,” disse, con un’espressione profondamente concentrata e rivivendo evidentemente quell’esperienza “il mio treno si fermò accanto a un mattatoio. Il bestiame nei recinti, all’udire il rumore del treno, trottò avvicinandosi alla barriera per guardare il treno. Erano vicinissimi al mio finestrino, si spingevano l’un l’altro e mi guardavano attraverso la barriera. In quel punto pensai: ‘Guarda,, mi ricorda la Polonia; era proprio così che appariva, la gente, piena di fiducia, un momento prima che finisse nelle scatole…’”.
“Nelle ‘scatole’, ha detto?” lo interruppi. “Che cosa intende dire?”. Ma lui proseguì senza rispondermi, come se non mi avesse udito.
“… dopo d’allora, non riuscii più a mangiar carne in scatola. Quei grossi occhi … che mi guardavano … senza sapere che di lì a poco sarebbero stati tutti morti”. Fece una pausa. Aveva il volto tirato. In quel momento sembrò vecchio, esausto, vero.
“E così, sentiva che non erano esseri umani?”.
“Bestiame” disse con voce atona. “Semplicemente del bestiame” alzò una mano e poi la lasciò ricadere in un gesto di disperazione. Le nostre voci erano cadute a un tono basso. Fu una delle poche volte, in quelle settimane di conversazioni, che non fece alcuno sforzo per mascherare la sua disperazione, e questo suo dolore disperato mi suscitò un attimo di simpatia.
Quando pensa che cominciò a sentirli come bestiame? […]” […]
“Credo che cominciò il giorno in cui vidi per la prima volta il Totenlager di Treblinka.  […] quelle fosse piene di cadaveri lividi, nerastri. Non avevano più nulla a che fare con l’umanità … era una massa … una massa di carne che imputridiva […]”.
[…] “raramente li vedevo come individui. Per me era sempre soltanto un’enorme massa. A volte stavo in piedi sopra il muro, e li vedevo nel tubo. Ma  - come posso spiegarlo – erano nudi, assiepati, e correvano sotto le sferzate…” non finì la frase. […]
“E non avrebbe potuto cambiar nulla di questo?” domandai. “Nella sua posizione, non avrebbe potuto far smettere la vestizione, le frustate, l’orrore di quei recinti?”.
“No, no, no. Era quello il sistema. L’aveva inventato Wirth. Funzionava. E dato che funzionava, era irreversibile”.
[p.270,271,272]

“Che differenza c’era, per lei, tra l’odio e il disprezzo implicito nel fatto di considerare della gente come ‘bestiame’?”.
“Non ha niente a che fare con l’odio. Erano così deboli. Si lasciavano fare qualunque cosa. Era gente con la quale non c’era alcun terreno comune, nessuna possibilità di comunicazione – è di qui che sorge il disprezzo, non potevo capire come potessero arrendersi in quel modo. Molto di recente ho letto un libro sui conigli delle nevi, che ogni cinque o sei anni si gettano in mare per morire; mi ha fatto ripensare a Treblinka”.
[p.313]

[Richard Glazar]: “[…] Ma ogni traccia di sangue sugli indumenti significava morte; era una cosa antiestetica, e le SS erano molto esigenti in fatto di estetica ]p.320]

[Il libro di Janusz Korczak] “Io l’ho studiato […]. E so perché [in Germania] non vogliono comprare questo libro. Senta qui…” e mi lesse un pezzo della fiaba che c’è nel libro. “...Quando un soldato riceve un ordine, deve obbedire. Non deve far domande, non deve esitare, e non deve pensare: deve obbedire'. […] . è esattamente il genere di cose che non devono leggere mai più”.[p.350,351]

Questa allusione ai viaggi di Stangl in Brasile mi ricordò l'episodio che lui mi aveva raccontato, a proposito del bestiame che aveva visto accanto a una stazione, in attesa di essere macellato, e aveva pensato: “Questo mi ricorda la Polonia; anche là la gente aveva quest'aria fiduciosa – un momento prima di finire nelle scatole...” e domandai a sua moglie se le aveva parlato di quest'episodio. Lei disse che non gliene aveva mai parlato. “Ma, sa, d'un tratto smise di mangiar carne; non riesco a ricordare esattamente quando successe, ma fu poco dopo il nostro arrivo”.
" nel libro. n pezzo della fiaba che c'mprare questo libro. a, e le SS erano molto esigenti in fatto di estetica ]p.320]......   sv opèSKVèK...
o ripen


EPILOGO
Io non credo che tutti gli uomini siano uguali, poiché la nostra caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi. Ma l'individualità e la differenza non sono dovute soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci. V'è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche e, in seguito determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo. Mente, spirito, o forse una forza morale finora innominata.  Ma io credo che, nel senso più profondo, la personalità individuale esista soltanto, sia valida soltanto, dal momento in cui essa emerge; quando, a qualunque età (se abbiamo fortuna, nell'infanzia) cominciamo a essere padroni e progressivamente responsabili delle nostre azioni. La moralità sociale dipende dalla capacità dell'individuo di prendere decisioni responsabili, di fare la scelta fondamentale tra il giusto e l'ingiusto; questa capacità deriva da questo misterioso nucleo – che è l'essenza stessa della persona umana.
Quest'essenza, tuttavia, non può sorgere né esistere in un vuoto. È profondamente vulnerabile e profondamente dipendente dal clima di vita; dalla libertà nel senso più profondo: non licenza, ma libertà di svilupparsi: nell'ambito della famiglia, nell'ambito della comunità, nell'ambito delle nazioni, e nell'ambito della società umana nel suo complesso. Il fatto che essa esista, pertanto – il fatto che noi esistiamo come individui validi – è prova della nostra interdipendenza e della nostra responsabilità reciproca.

[ed.Adelphi]
[ed.Ferni]

martedì 28 gennaio 2014

365 giorni della memoria

Scattata sabato 25 gennaio 2014
La Giornata della Memoria è finita da pochi minuti. Ci ho pensato tutto il giorno, poiché, anche senza cercarle o senza volerlo, mi sono capitate sotto gli occhi (su internet o dalle vetrine di una libreria) molte frasi e immagini e copertine di libri.

Alla fine, mi è venuta in mente questa immagine: un carro-rimorchio per bestiame (uso di proposito questa parola mercificante). Anche questo 'attrezzo dell'oppressione' mi è capitato davanti per caso, senza volerlo, senza che io lo cercassi.
Sabato pomeriggio 25 gennaio. io e i miei cani stavamo andando a fare una cosa bella per tutti e quattro, un bel pomeriggio in un bel prato, insieme ad altri cani e a persone che li amano e li rispettano e considerano il tempo passato con loro come occasione sempre ricca di emozioni e stati d'animo da imparare. Ma questa, è un'altra storia.
Fatto è che, a pochi chilometri da Novara, lungo la Statale 299, ho fatto una sosta tecnica, trovando parcheggio in questo spiazzo di un piccolo paesino a 10 chilometri dalla città.
E proprio lì, nello spiazzo, c'era, fermo e vuoto - questa imponente prigione su ruote. Pronta per essere riempita con altre vittime alla prima occasione. Proprio lì, all'improvviso, come nel film 'Duel'.
Non so perché, mi ha attratto il disegno regolare delle sue fiancate,  - tutte le linee che indicano porte, e serrande, e feritoie, e prese d'aria, e pedane. Tutto silenzioso, pulito, bianco e grigio chiaro. Anonimo.
La quintessenza del referente-assente, quello di "The Sexual Politics of Meat: a Feminist-Vegetarian Critical Theory", scritto nel 1990 da Carol J.Adams

Scattata sabato 25 gennaio 2014
Geometrie metalliche di intrappolamento, dei nostri giorni, così simili, per non dire identiche, ad analoghe geometrie-trappola di circa settanta anni fa. Non è difficile immaginare visi che fanno capolino da lassù, facce che si sporgono. Esattamente come oggi. 
Allo stesso modo, libro chiama libro: così mi viene in mente anche Roberta Kalechofsky, che problematizza il confronto tra Olocausto e ecatombe dei milioni di individui di altre specie animali, sterminate ogni giorno, nell'indifferenza-della-normalità, la più totale.

Vero è che la comparazione tra i due eventi, sembrerebbe rendere un cattivo servizio a entrambi: le vittime dell'Olocausto diventano solo metafore, gli altranimali dell'ecatombe-senza-fine, spariscono una volta di più, adombrati dal paragone che invece dovrebbe dar loro visibilità. (Così scrive Kalechofsky).

Intanto, però, tutti i giorni, milioni di questi esseri senzienti, vengono fatti nascere per poi venire uccisi, tutti i giorni. Senza fine. E senza Storia. Se non quella che reclamano per loro alcuni tra gli umanimali. (Perché è pur condivisibile quel che scrisse Isaac Bashevis Singer, che "tutti gli uomini sono nazisti per gli animali").
Perciò.
Occorrono 365 giorni della memoria - della denuncia, dell'esposizione alla consapevolezza.
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