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Novara centro |
courtesy from Marco Paracchini,
23 aprile 2014 15:27,
caro
Marco, finalmente, ho visto il tuo cortometraggio.
Dire che mi è piaciuto è scontato, ma
non è il complimento fatto per amicizia, credimi. Il film mi ha
incuriosito e intrigato, e poi affascinato, sorpreso, perfino divertito
(in maniera agrodolce), e alla fine immalinconito.
Varie le considerazioni personali da fare, nel dettaglio: sull'estetica, sulla resa, sul messaggio.
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
L'estetica è quella della solitudine post moderna: tante case cubicoli
che sono sempre più non luoghi, persino nella provinciale Novara; accoglienti,
persino tecnologiche, ma in fondo fredde e impersonali. Con una pentola, un
piatto, la televisione. I cubicoli si trovano in centro città, in una casa che - per via dei
dettagli che si vedono e che la raccontano, come la statua, la ringhiera
in ferro battutto, i colori delle pareti, - dev'essere di quelle
restaurate e costose. divise in appartamenti, tutti messi in affitto. Questa solitudine, raccontata
attraverso la giornata tipo di questa bella ragazza e di questo bel
ragazzo (son tutte belle, le persone nel tuo film, a proposito), si
esplica e si sublima attraverso il rapporto coi cellulari: tutti, nel film, stanno sempre a comunicare a un(')
assente, col pensiero a un altrove che non è mai dove si trovano in quel
momento. Da qui, mi sembra derivi spaesamento, esemplificato dal panino mangiato nello
sgabuzzino, oppure e ancor più, lo spuntino consumato stando a cavalcioni delle mura romane dietro un palazzo signorile, che i novaresi possono riconoscere come il Conservatorio - ed è una scena di grande impatto, cioè molto sorprendente per come si sviluppa e prende il volo; dal (voler) essere altrove, deriva anche afasia, una incapacità di comunicazioni 'calde',
cioè con altri esserei viventi, faccia a faccia, a meno che non siano
quelle funzionali e strumentali del lavoro, dell'impiego, della
professione, delle necessità basic come fare la spesa al discount. Tutto
questo, genera, mi genera, dei sentimenti di cui poi dirò.
La
resa: sono rimasto davvero senza fiato a vedere Novara da una prospettiva a
volo d'uccello! Le riprese aeree, ma anche il taglio di quelle a terra, i
fuochi, le luci, gli scorci, le location, l'hanno resa una città irriconoscibile,
più bella e affascinante e in certo modo più misteriosa e cosmopolita
di quello che realmente è. In certi momenti, non l'ho riconosciuta, ed è
sembrata una città in cui avrei voluto vivere. In certi momenti, mi è
sembrata la Tokyo di "Lost in translation"; anche il destino dei due
personaggi si assomiglia, ma qui è persino più solipsistico e triste di quello dei due
americani a Tokyo nel film della Sofia Coppola.
Il
messaggio. La parola è brutta. Forse meglio se uso una parola come 'il racconto', o 'la
storia': ché di questo si tratta. C'era una volta una bella dama e c'era
una volta un valido cavaliere, che tutti i giorni affrontanvano con
coraggio muto e rassegnazione, gli impegni dei loro compiti lavorativi.
Fuor di 'once upon a time', e nel presente: tutti sono isolati, anche se
in mezzo agli altri; si schermano, si schierano, dietro al volante,
dietro alle cuffie, oppure sfogliando libri di cui non gli importa
veramente, oppure consultando lo schermo del pc; oppure cenando come
profughi davanti al fuoco digitale dello schermo tv lancia-immagini
anestetiche. Troppo pessimista? In fondo, le immagini sono per Marco Paracchini un
grande valore, un grande tesoro, un'avventura di scoperta. Ma qui, il
ragazzo e la ragazza, quest'avventura non la colgono - nemmeno che la
rifiutino, è proprio che nemmeno si accorgono che esiste. Infatti, per tutto il
giorno, mandano messaggi a un qualcun altro in un altro altrove,
presumibilmente identicamente-non-diverso; o altrimenti, diversamente-identico a quello dove trascorrono le loro ore, dove si lasciano
trascorrere sugli abiti e tra i capelli e la barba le loro ore che non
sono più loro, ma sono indifferente tempo-(s)perso che se ne va per
conto proprio, sgocciola via e rimane immobile e contemporaneamente è anche ciclico. Questo qualcun altro non sappiamo chi è e/o perché è -
sappiamo, o crediamo di sapere che il messaggiare con esso procura
gioia (?), sollievo (?), distrazione (?) ai protagonisti, ma anche ai
comprimari. Che di fatto possono benissimo essere considerati
intercambiabili - e il fatto che l'obiettivo segua le loro giornate
anziché quelle della collega di scrivania o della ragazza al desk di
libreria, tanto per fare un esempio, pare del tutto casuale, i due protagonsti non sembrano possedere un significato speciale rispetto alle altre persone sullo sfondo.
Inizialmente, si può pensare che comunichino tra loro, ma no, non è così. Nel corso della storia, tra l'altro, per una certa manciata di minuti, ho creduto, ho aspettato, ho pensato, che in qualche modo si sarebbero incontrati. Ho pensato
che il caso li distrarrà dai cellulari, distrarrà i loro sguardi dai
piccoli schermi per alzarli alla luce della realtà fatta di altre
persone. Ma no. Non succede. Ciò mi suscita sia malinconia che rabbia,
che poi trascolorano in constatazione che oggi questa è la realtà: non
si possono - non si devono - né avere né mostrare sentimenti a tutto
tondo, emozioni forti, parole gridate. Perciò, anche il mio stato
d'animo abbassa il volume, coglie il fatto che la storia filmata
registra una realtà generalizzata - ma solamente in una porzione di pianeta che
non è tutto il pianeta, anche se si illude - in modo ingenuo, con mente
embedded - di esserlo.
E all'arrivo del mattino dopo, il mio sorriso è
amar-sarcastico per la sorpresa del guizzo (un finale alla Frederic Brown ma non troppo - se Frederic Brown fosse intimista), nello scoprire che la bella ragazza e il bel
ragazzo sono dirimpettai. Magari è la prima volta che si incontrano: e
ciò renderebbe ancor più drammaticamente 'spaventosa', la loro
reciproca reazione, che è poco più di un sorriso soffiato sulle labbra
increspate, occhi bassi, e poi ciascuno via - l'altro vivo e reale e presente e concreto è già dimenticato (per timidezza, o per diffidenza, o per indifferenza, o per incapacità?):
non è importante, presto arriverà un nuovo sms, anzi è già arrivato da
l'altro altrui in altro ulteriore altrove solitario.. Nessuno tocchi
nessuna bolla, ché altrimenti esplode. E le conseguenze sarebbero troppo
imprevedibili da sopportare. Ma - io credo - sarebbero la vita.
Una considerazione maturata dopo aver scritto questo testo (scritto di getto via email e adesso riportato qui, ma con un lavoro di autoediting approfittando della rilettura): ritorno a rivedere le case dove abitano il ragazzo o la ragazza. Sono case impersonali, e l'ho scritto. Ma sono anche case inanimate. Non c'è nulla di vivo dentro. Per esempio, non c'è un cane, non c'è un gatto - né potrebbe esserci o viverci (o viverci bene) perché non sono ambienti a misura di esseri viventi; l'assenza di altri viventi con cui avere scambi, principalmente comunicativi-emotivi, fa avvizzire anche la capacità di socializzare con gli altri umani, ai quali si preferiscono le interfacce elettroniche - perché sicure, prevedibili, rassicuranti, prive di sorprese impreviste. E in questo rispecchiano in piccolo ciò che in grande sono diventate le nostre città. Le città non sono più ospitali per i viventi che le abitano, quegli umani che si suppone potrebbero e dovrebbero essere capaci di crearsi un ambiente vivibile, attraversabile, anziché un luogo che è a loro stessi ostile e impraticabile. La non presenza di animali è il segnale più chiaro di questa invivibilità: se gli spazi disegnati e costruiti non sono più in grado di accogliere i viventi che ne sono i destinatari principali, allora spariscono, cancellati, anche gli altri viventi che invece questi spazi li hanno subiti fin dall'inizio. Ma questo è un discorso - di zooantropologia, di margini e bordi, di relazioni e comunicazioni e linguaggi 'politici', cioè della polis - che ha bisogno di altri spazi e altri momenti. Per ora mi fermo qui, a rivedermi il corto di Marco Paracchini
senz'altro, da rivedere! :)
RispondiEliminaDavvero bello, questo muoversi dentro e fuori. Mi è piaciuto molto, come le considerazioni che lo accompagnano.
RispondiEliminaCiao Santa, ben arrivata sul blog. Grazie per il tuo commento. E' vero, questo corto di Marco Paracchini è davvero particolare.
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