lunedì 1 giugno 2020

So di CA...mbiamento



Questo è un libro destinato a diventare una pietra miliare, tra i libri cinofili. Non è l'unico, ma rientra nel novero di quei pochi libri che rappresentano delle ripartenze: fin qui, le cose sono andate così, tutto è stato in questo modo. Da qui in poi, le cose devono cambiare - e queste sono le strade da intraprendere.



Il libro è frutto della conferenza che si è tenuta nel luglio del 2019 ad Assago: raggruppa gli otto interventi dei relatori di quelle due giornate e lo fa in un modo molto coinvolgente. Infatti, come precisa proprio il curatore, Luca Spennacchio, "l'intero testo riporta le parole esatte dei relatori, sono stati apportati minimi cambiamenti per adattare il linguaggio parlato a quello scritto solo qualora fosse indispensabile, al fine di rendere più comprensibile al lettore quanto espresso in aula". Certo, l'atmosfera live sul posto, l'hanno potuta vivere e apprezzare solo quelli che possono dire "io c'ero" (come ai concerti), il coinvolgimento emotivo è irriproducibile - ed è per questo che certe occasioni dovrebbero essere irrinunciabili.
Però, l'espediente scelto da Luca, alla fine, è un ottimo surrogato.
Dalla sua, poi, il libro, ha la forza degli argomenti, dei temi e il modo in cui vengono trattati.
Da diversi anni ormai, Luca si è attivato e proposto come costruttore di ponti, al crocevia di diverse discipline - con lo scopo di comprendere e valorizzare il cane e la sua relazione con l'umano e subito dopo, per cercare soluzioni alle molte cose che non vanno (più) tra i due. Scienza di ricerca e etologia sul campo, psicologia umana e sociologia, giornalismo e volontariato: sono così tanti e anche di più i punti di vista da cui si può angolare l'argomento-cane.

Avrete capito che il libro ti è piaciuto, ti ha appassionato, ci hai messo meno di quattro giorni a leggerlo, riempiendo le pagine di sottolinature, appunti, frecce, rimandi, commenti a matita. 

Ognuno degli otto interventi offre almeno uno spunto di novità, di ripartenza. Ciascun relatore a modo suo, ribalta punti di vista e rovescia certe conoscenze date pacificamente per scontate, acquisite. Mentre invece son quelle che - in questo ambito - han più bisogno di ridiscussione, di critica. Anche di venire sostituite, rimpiazzate da nuove indicazioni, regole, buone pratiche.

A questo punto, ti viene in mente un ventaglio di possibili inizi, quale scegliere? 
Tieni fermi due punti: il fenomeno del randagismo - una locuzione che di per sé deve essere ripensata e di fatto è proprio quello che accade -  e la necessità vitale di ridisseminare una 'cultura cinofila' che permetta alle persone comuni di non vivere e vedere più il cane come un 'perfetto estraneo' (virgolette tue). Dal randagismo si parte per esplorare l'essenza del volontariato e le caratteristiche dei rifugi e dei possibili modi di intervento. Dalla cultura cinofila si arriva a parlare di passione, di studio e del come perforare il muro di gomma fatto di totale disinteresse delle persone comuni, che continuano a pensare che il cane sia un qualcosa di poco conto, che non merita tutto sommato più che tanta attenzione. E questo  è - secondo te - il maggior punto dolente, lo snodo critico, il tallone di Achille della intera relazione tra umani e cani - eppure, è una relazione che è iniziata non meno di 30.000 anni fa; solo che, come dice Spennacchio, a un certo punto qualcosa ha cominciato ad andate storto. Che cosa?

Perché il cane si chiama 'No'? 
Perché NON deve: bere dalle pozzanghere, correre, tirare, abbaiare, scavare in giardino, abbaiare alle persone, abbaiare ai cani, rincorrere i cani, mostrare i denti ai cani, mangiare la terra, correre tra l'erba alta, rotolarsi nel fango, allontanarsi da noi, non rispondere quando lo chiamiamo, obbedire al 'seduto!', obbedire al 'fermo!', dare retta  ai mille 'No!' di ogni giorno; e ancora, NON DEVE: salire sul divano, salire sul letto, salire sulla poltrona, grattare alla porta, abbaiare alla porta, nacondersi sotto il letto,  spaventarsi al rumore dell'aspirapolvere, della lavatrice, della lavastoviglie, vomitare in auto,  agitasi in auto, abbaiare in auto, mangiare i sedili dell'auto, mangiare l'imbottitura del divano,  esplorare casa quando è cucciolo, fare cacca e pipì in casa fino ad almeno tre mesi, mangiare il legnetto, rovesciare la ciotola dell'acqua, buttarsi nella pozzanghera, buttarsi nel fiume, buttarsi nel canale, saltare addosso, sbavare, leccarci, mettere il suo naso sul nostro sedere o su qualsiasi altra parte del nostro corpo, annusare i genitali dei cani, montare i cani, farsi montare dai cani, prendere gli oggetti degli altri cani, vomitare e rimangiare il vomito, mangiare le feci, annusare gli animali morti... ?

Perché il cane  'deve essere raddrizzato'? Perché 'il cane è un cane e va trattato da cane' - il che sottintende sempre una trascuratezza, una sciatteria nel nostro modo di porci nei suoi confronti? Perché 'il cane è pur sempre solo un cane e quindi non ci si può fidare'? Perché 'il cane ci fa i dispetti'? Perché 'il cane deve capire subito che lui non comanda niente'? Perché 'il cane deve stare al suo posto'? Perché 'coi cani bisogna essere tosti'?
... Perché non cogliamo quanta violenza sia sottintesa in queste espressioni? Perché non proviamo mai nemmeno per un istante a dubitare della nostra intelligenza e - per contro - ad accorgerci della sua?

Per provare a rispondere a tutte queste domande, bisogna, secondo Luca Spennacchio, sforzarsi di "mettere da parte la propria realtà, per poterci avvicinare a quella dell'altro". Che può essere la realtà del 'cinofilo' verso la realtà 'del cane'; ma anche la realtà 'dell'educatore-etologo' verso la realtà della persona della strada.
Solo se ci si mette 'in ascolto per davvero' si può arrivare ad ammirare i cani, la loro fisiologia, la loro etologia, la loro socialità. E anche, si può davvero trovare il modo di far almeno (ri)conoscere alla gente quanto 'valore' abbia il cane - o almeno, far venire di nuovo voglia alla gente di provae genuino interesse per il cane.

Avete presente il film 'Il caso Spotlight', del 2015?
A un certo momento ti è venuto in mente, quando Luca nella sua conferenza scrive di certi fatti (di cani al trasferiti da un giorno all'altro, allontanati per sempre dal loro territorio, lontano, anche in un'altra regione; oppure trasportati al nord) che riempiono le pagine delle cronache locali dei giornali: sono episodi di un fenomeno che è sfuggente, perché nessuno lo conosce, anche se è lì, davanti agli occhi, ci vuole molta 'attenzione per seguire tutte le storie e farsi un idea del fenomeno mettendo insieme tutti i pezzi'. Sapere, non equivale a  comprendere. (Ed è proprio  significativo che proprio l'ultimo intervento della conferenza sia della giornalista Diana Letizia!).
Su questo fenomeno, di una specie di deportazione di 'cani in transito' dal sud al nord, di traffici, lucri e speculazioni, di mafie e di connivenze, di ingenuità e convenienze, di staffette e di stalli, di profitti  e di ri-abbandoni, di omertà e di opportunismo, Luca riannoda qualche filo nella sua relazione. Le cifre, sono impressionanti, perciò consigli di leggerle nero su bianco tra le pagine del libro - altrimenti, non ci si crede: sono i 'conti della serva', ma danno cifre milionarie.
Luca descrive il tutto come una barca che affonda, della quale nessuno vuole, o può, o riesce, o pensa di tappare la falla. La rilevanza etica della L281/91 (divieto di eutanasia nei canili dopo pochi giorni) ha portato a una situazione abnorme, lo sperpero di denari, soldi, fondi, donazioni e le relative speculazioni, hanno proporzioni allarmanti - il rischio concreto è che 'per risparmiare' qualcuno possa pensare di tornare indietro a prima della legge, unica in Europa. Cambiare i canili? Regolamentare le staffette e gli stalli? Formarne gli operatori? Coinvolgere le amministrazioni locali? Tutto questo va bene, certo.
Ripensarli proprio, i canili? Qui Luca parla di rifugi che si concepiscono in modo filosoficamente e culturalmente nuovo, mai visto finora: luoghi dove al cane vengono dati lo spazio e il tempo adeguati per esprimersi e tornare a vivere pienamente. ('Villaggio dei Randagi' in provincia di Catanzaro, 'RIOT DOG' in provincia di Bologna - rispettivamente episodio 08 e episodio 09 del ciclo di documentari 'Canile 3.0 On the Road').

Qualcosa va fatto, altrimenti il cane rimarrà sempre qualcosa di poco valore, ma anche la consapevolezza degli umani verso se stessi rimarrà bloccata, verrà trascurata: con conseguenti burnout, misantropia, narcisismo, adozioni compulsive, egocentrismi.  Perché il focus va anche riportato sull'umano, se si vuole avere qualche realistica possibilità di cambiare le cose.

Gabriele Ferlisi scrive e parla proprio dell'agire con consapevolezza, parla delle 'motivazioni altruistiche' e di quelle 'egoistiche' nella relazione con l'altro, quindi dell'umano verso il cane. Devi dire la verità: quando hai letto le analisi psicologiche del professore, brividi ti son corsi giù per la schiena. Ti sei sentito come se tu, quelle disfunzionalità comportamentali, ce le avessi tutte. Ti sei sentito imprigionato negli schemi adattativi o disadattativi, nell'iper-attivismo e nel pefezionismo, nei sensi di colpa, nelle pratiche di auto-sacrificio. Questo è il grande equivoco tra i volontari, che inoltre non si soffermano mai a riflettere su quanto possa essere controintuitivamente egoista l'empatia. Ma allora, quando metto i miei pensieri nella testa dell'altro - del cane - 'quando credo che il cane pensi come penso io' e penso a come mi sentirei io nelle sue condizioni, non sono davvero empatico, ma livello tutti i singoli cani a una indifferenziata e stereotipata 'caninità'. Non li riconosco più, smetto di aiutare gli individui e mi metto a 'gestire' un cane astratto, che non esiste nella realtà.
Invece "L'avere empatia presuppone il comprendere l'altro nella sua individualità', 'sentire come sente' lui e non noi.
Come se ne esce? Si deve fare il giro largo, non c'è altra via. Cioè, tra le altre incombenze psicologiche, c'è da capire e da convincersi che non si è né infallibili né onnipotenti, e che - alla fine!- è sano e vitale tornare a prendersi cura di se stessi. Per ricaricare le energie. Per risollevare per qualche momento gli occhi da una immensità di dolore che non finisce mai e che ci condanna al non riposo - anzi, qualche volta ci condanna agli incubi e questo è senz'altro condivisibile con tutte quelle persone che sono vegane non perché mangiano il tofu, ma perché sono attive per l'aiuto agli animali non umani.
Il 'Mondo dei sogni' di Ferlisi: quello dove 'all'interno delle associazioni c'è un terapeuta', 'che tra associazioni ci si parli', perché magari qualcun altro ha trovato la soluzione a qualcosa che per noi è ancora un problema". A parer tuo, questo è il modo per smettere di vivere in situazione di emergenza, sguardo basso e una sola direzione: invece, interdisciplinarietà e più scopi, possono far uscire i volontari dalla gabbia dello 'scopo di minaccia', lo scopo unico del 'salvare' il cane - votandosi di fatto al fallimento.

Raffaele Mantegazza, lo avevi già incontrato tra le pagine di un libro - il suo "L'ultimo scodinzolio"-  e qui ritrovi molti dei temi affrontati in quei pensieri. Mantegazza compie collegamenti vertiginosi, che ampliano a dismisura il senso dei singoli fenomeni, dei singoli comportamenti, che fanno spaziare 'le cose' e ne cambiano i significati.
L'umano è un animale culturale, nel senso che nella sua evoluzione ha assunto questi comportamenti che gli fanno generare oggetti culturali. La cultura è dunque la sua natura, non è qualcosa di distaccato, di altro. Natura e cultura, coincidono. In ciò, umano può scegliere se essere anche buono o solo minaccioso e aggressivo. Lo stesso gesto può fare del bene oppure può far soffrire. Spetta a noi scegliere. Ti lascia perplesso - è vero - il parlare che fa Mantegazza dell'uomo come un animale che ha 'libertà di scelta', ti sembra troppo imparentato col libero arbitrio religioso che siamo convinti ci separi dai 'bruti' ai quali, quindi, possiamo far tutto quel che vogliamo. Anche l'idea che l'uomo sia un predatore ti pare un po' discutibile, ma il punto è che noi individui possiamo scegliere se colpire oppure se aiutare. Alla fine, è un rapporto tra individui - anche se la specie-specificità rimane sullo sfondo, a dirigere le diverse modalità di vivere nella realtà, questo oggetto metafisico che 'in realtà' (!) ci sfugge sempre. Alla fine, è una questione di 'volto'. Alla fine - tu pensi: solo se 'riconosciamo' il volto altrui - cioè se ammettiamo che sia un volto espressivo individuale e accettiamo questo - solo  a queste condizioni possiamo tornare a rivalutare 'il' cane, quel cane, ogni cane e, di passaggio, solo se ammettiamo che anche il viso degli animali sia un volto, possiamo iniziare a pensarli diversamente e a non usarli più -per cominciare, a non usarli più come metafora dispregiativa e insulto contro altri umani che vogliamo annullare, offendere, annientare, sterminare. Per far questo, dobbiamo in un certo senso anche mettere in discussione un atteggiamento apodittico della scienza, che definisce proprio l'espressione "l'animale ha un volto" come 'anti-scientifica'. Affermazione di per sé insensata, tanto più che molte classificazioni zoologiche patiscono di una emotività inespressa, inconscia, invisibile, negata; oltre tutto la oggettività scientifica oggi come oggi non può non incontrare la emotività - e a te vengono subito in mente Diane Fossey, Jane Goodall o Cynthia Moss. nei cui studi, al contrario, la componente soggettiva, emotiva, individuale, ha giocato un ruolo di scoperta epistemologica impensabile, irrealizzabile, impossibile tra le quattro (tristi) mura di un laboratorio.
In realtà 'non c'è esclusività reciproca tra affetto e ragione' dice, per il nostro sollievo, Mantegazza.
Anzi, questa commistione è - a parer tuo - molto potente: solo amando quel che si studia (e qui non puoi non ripensare alle parole di Luca Spennacchio) si può veramente comprenderlo; si può mettere tutto il proprio corpo a contatto con il corpo dell'altro, ridefinirlo 'a partire dal messaggio che ti sta mandando il corpo dell'animale', smettere alla fine di occupare tutto lo spazio. A proposito di spazio, qui Mantegazza parla dell'olfatto che ridisegna e amplia 'il cerchio che l'animale traccia intorno a sé'. I bambini, con questi odori, hanno meno inibizioni, per loro lo 'schifo' della natura - lo schifo che invece a noi fa quel che a volte i cani posson mangiare, per esempio - è motivo di interesse, curiosità, attenzione, esplorazione. Siamo di fronte a comunicazione di messaggi che noi nemmeno sospettiamo esistano: il mondo degli odori, così come il mondo della vista oltre lo spettro prismatico, ci sono totalmente ignoti e impossibili da immaginare come sia viverci dentro.
Non di meno, possiamo pensare che l'animale - anche quello anziano, disabile, malato - è 'fragile', ma non 'debole'. E questa fragilità noi la condividiamo con loro - siamo anche noi animali, anche se vogliamo negarlo.  Invece, la debolezza la causiamo con i nostri gesti violenti - gesti ai quali va opposto il gesto di cura, un gesto così ampio da poter capovolgere una società come la nostra, dove malattia, vecchiaia, sono motivo di abbandono e di ribrezzo, di rifiuto - per cui sommiamo debolezza a debolezza. Impediamo all'individuo di resistere, di riposizionare equilibri interni e rapporti esterni - vale a dire, le azioni dettate dalla fragilità, che 'costitutiva del vivente'. Che è mescolata con la morte - evento anch'essa, taciuta e negata nella nostra società.  Mantegazza contrappone la 'presa in carico' del vivente e della sua morte potenziale, in un 'continuo scambiarsi di attività e passività' (e qui, hai ripensato a Lisa, Stella e Kikiuz, le tue canine afflitte da problemi neurologici: loro tre stanno diventando il perno su cui provare a ruotare te stesso per cambiarti). "Affidarsi... assecondare... lasciare". Un ultimo pensiero, interessante: di fronte a una situazione 'naturale' di sofferenza, se sono lì presente, 'metto in campo il mio comportamento di cura', salvando quell'individuo nel pericolo presente; e non mi nascondo dietro alibi come - per esempio - 'la predazione', la gazzella e il leone, cose come queste. In questa ottica, anche solo 'dare una morte dignitosa' si rivela essere la scelta etica imprescindibile.

Forse Sara Turetta si è ritrovata moltissime volte a dover compiere questa scelta, con la  sua Save the Dogs in Romania, iniziata nel 2001.
Ecco, Sara Turetta, per tutta una serie di motivi, sarebbe perfetta per un film. Perché nella sua storia c'è la rivelazione, c'è la conversione e il capovolgimento della propria vita; ci sono il coraggio e i pericoli, le minacce e le solidarietà.
In questi venti abbondanti anni, di cui Sara parla nel suo libro autobiografico, è accaduto veramente di tutto: orrori crudeltà e brutture, ma anche la creazione di un modello di aiuto verso gli animali che a un certo momento ha coinvolto e aiutato anche gli umani (riduzione del danno, ecologia del randagismo, rilascio controllato sul territorio), il decentramento e la messa in questione del punto di vista occidentale, la creazione di alleanze internazionali, la formazione di personale competente, preparato, motivato. Nel finale, due cose si notano: la messa in circolazione di cliniche mobili (ed ecco un'altra carta che si aggiunge al mazzo di quelle giocabili nella partita iniziata con la 281 e contro il collasso dei canili italiani); la messa in realizzazione di progetti anche nel Sud Italia, che si sta rivelando un vero e proprio crocevia di problemi - forse anche internazionali - ma anche di soluzioni e di progetti (per esempio, 'Stray Dogs International Project'). "Fare rete con altre realtà' , condividere competenze e soluzioni, 'collaborare'. Entrare nei luoghi, andare sul posto.

Che è ciò che ha fatto Davide Majocchi (Lunacorre), autore del docufilm NoPET - che ha partecipato a 'Mission Rabbies' in Tanzania, nel 2018. In Africa, il cane non è un pet, non ha perso, come nel nostro Occidente, le competenze sociali che gli fanno valutare le distanze e gli approcci, i modi per trovare le risorse e per muoversi nel mondo - competenze che i 'pet' occidentali hanno del tutto smarrito, per loro sfortuna e a causa nostra. Majocchi, che ha un modo di ragionare sulle cose libero e profondo, generoso di agganci laterali, in Africa ha scoperto nuovi significati di libertà, l'esistenza di opportunità impensabili qui da noi - non ci si crede, vero?!- i problemi che diventano occasioni per escogitare nuove soluzioni. 
Si chiede tante cose, Davide Majocchi, tra queste: "possiamo capire che l'alternativa che offre il vivere agiato comprende il destinare miliardi e miliardi di animali agli allevamenti 'da carne e latte'. Siamo certi di incarnare la 'cultura superiore'?".

La nostra cultura ha reso i cani dei 'pet', cioè, in buona sostanza, degli inabili a vivere. Di questo problema si è occupata Elena Garoni. La partenza torna a essere quel ragionare sui cani del sud che aveva mosso Spennacchio. I 'cani del sud', 'hanno un'altra genealogia' rispetto ai pet, ai cani 'di razza'. Questi cani, transitati al nord 'per salvarli', sono cani destinati alla paura a vita: perché non sanno - e non vogliono - relazionarsi all'umano e al suo ambiente antropico, alla antropizzazione spinta di ogni spazio, un fenomeno che influisce anche sui tempi e sui movimenti. La paura, il cane la manifesta in molti modi: o fugge, o si immobilizza, o aggredisce - oppure inizia a fare 'altre cose', a evitare. Nessuno di questi comportamenti - tranne, purtroppo, quello di attacco-aggressione - viene compreso dalla maggioranza degli umani. Il cane del sud, che finisce con l'aggredire qualche umano che non ha capito i suoi segnali di paura, ha il destino segnato: sarà un infelice, un prigioniero in un canile. Ma anche se qualcuno deciderà di prenderlo in casa, non sarà mai - mai - un cane felice in un ambiente umano.
Queste situazioni - che Elena Garoni analizza e spiega con grande dovizia tecnica che tu non provi nemmeno a cercare di riassumere perché faresti di sicuro degli errori enormi - sono la conseguenza del transito dei cani - e sono i cani in prima persona che ne pagano lo scotto, sulla propria pelle. Si intravedono soluzioni? Magari degli approcci laterali ai problemi: sia fornendo al cane nuovi mezzi per riguadagnare spazi e tempi, sia cercando di capire 'chi' è il cane al sud, per poterlo lasciare al sud, nel suo ambiente, a casa sua - ma in questo caso è sull'umano che andrebbero fatti i più impegnativi interventi. Per inciso, i 'pet', nel mondo, sono solo il 20% di tutti i cani - l'80% sono tutti gli altri. Sono sottoposti alla 'ennesima affilizione' coatta che gli uomini impongono agli 'animali da compagnia' - tutt'altro che animali liberi.

Una libertà seriamente compromessa anche - tra le altre cose - dalla 'segregazione genetica' per motivi estetici - uno degli argomenti di cui scrive David Morettini."La segregazione genetica è qualcosa di grave" e anche le sue modalità - per esempio inseminazione artificiale - si avvicinano molto alle pratiche zootecniche impiegate 'sugli' animali 'da reddito'. La selezione - intesa come espressione etologica, inestricabile geneticamente dalla espressione fisica - è seriamente penalizzata. E la vita dei singoli individui soffre di una lunga serie di penalizzazioni. Ma questi singoli, sono pet. Cioè, sono proprietà: infatti si dice 'sono il tuo padrone', 'sono responsabile di te'. Gli umani non accettano la libertà dell'altro, che quindi non viene riconosciuto, scambiano i suoi modi di comportarsi - resistenti - con indisciplina e disobbedienza problematiche, nei confronti degli 'incontrastati umani' (Majocchi) e quindi si apprestano a correggerle. Il pet viene reso 'debole' dalla nostra violenza, che si esplica anche in modi apparentemente non violenti: il pet non decide mai quando e dove andare, non decide mai con chi relazionarsi tra gli altri cani, non ha un territorio, non gestisce le sue risorse. La sua 'intelligenza sociale' (Marchesini) non trova mai la strada per esprimersi. Il cane pet vive al guinzaglio, dal quale non viene mai sganciato e non impara mai a essere davvero cane - in tal modo le sue 'deficienze' si autodimostrano, in un circolo vizioso escogitato dagli umani.

Soluzioni? Morettini accenna ai cani di Istanbul (hai trovato due articoli, uno qui e l'altro qua).
Sul territorio occorre monitorare i gruppi dei cani, che sono gruppi familari, capirne le dinamiche (per prima cosa, capire che sono cani che non sentono il bisogno di relazionarsi con gli umani, così come farebbe un cane-pet). Se poi viaggi al nord ci saranno da fare per alcuni individui, ci dovrà essere una filiera, che inizia con il volontario e il veterinario che 'prelevano' il cane, prosegue con un valutatore, continua con un trasportatore accreditato e in regola, continua con i referenti al nord e finisce con l'educatore che supporta l'adozione concreta.

L'ultimo intervento è di Diana Letizia, giornalista che si potrebbe dire ricopra una inedita specializzazione giornalistica: quella che si occupa di animali. Sei pubblicista, perciò ti ha interessato molto questa relazione e ti ha fatto molto piacere leggere certe considerazioni sulla professione.
Il giornalista, dice Letizia, dovrebbe informare: "comunicare...vuol dire persuadere; informare ...vuol dire basarsi su tre principi: ... correttezza, verifica e veridicità".
Così come si trattano tutte le notizie, si dovrebbero trattare quelle che parlano di animali. Invece che i consueti due modi - la 'cronaca nera' o la 'notizia di colore - andrebbero trovate altre possibilità. Questi due modi, infatti, quando va bene non ci dicono nulla sugli animali, quando va male ci dicono cose fuorvianti o - peggio - errate sugli animali.
E allora? Allora, per attrezzarsi a fornire una giusta informazione, occorre - pure qui - predisporsi a creare e crearsi una rete di referenti, sia giornalisti che di altri settori a contatto diretto con gli animali. Lo story telling - cioè il crere una storia, che dia una cornice di senso e di partecipazione alla narrazione di un fatto, che invece è nuda cronaca - dovrebbe cioè fornire gli elementi giusti al lettore per farsi una sua valutazione corretta.
Allora, forse, una delle soluzioni al problema iniziale della scarsa consapevolezza, della bassa conoscenza e della poca attitudine alla valorizzazione, che gli umani hanno a discapito dei cani - per non parlare di tutti gli altri animali - passa proprio da qui. Dalla formazione di giornalisti che siano loro per primi consapevoli, conoscitori e attenti: che vogliano e possano veicolare contenuti genuinamente informativi, che sappiano suscitare nei lettori anche la voglia di approfondire loro stessi, suscitando un interesse non effimero.
A te, vien da immaginare che per far questo, nelle redazioni ci possa essere un 'giornalista della cronaca animale' - così come c'è per la 'cronaca binca', la 'cronaca rosa', la cronaca nera, la cronaca sportiva, la cronaca degli spettacoli e della cultura, la cronaca della economia. Non un generico 'ambiente naturale' né una astratta 'ecologia' che rimane sempre antropocentrica, ma una pratica di comunicazione che voglia e sappia adottare punti di vista animali altri.

Era tantissimo che non scrivevi post chilometrici così. La 'presentazione' del libro è cresciuta così tanto da diventare qualcosa d'altro. Tante, tantissime cose ti avevano coinvolto nella lettura, non riuscivi e forse nemmeno volevi a non considerarle. 

5 commenti:

  1. Una vita senza un cane è una vita senza sale. Purtroppo la violenza nei confronti degli animali è in costante aumento, soprattutto in mancanza di leggi appropriate, o di mancata applicazione dell pur risibili pene attuali. Io non mi esprimo con anatemi o insulti volgari, ma la mia anima se lo può permettere benissimo. E lo fa.

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    1. Sì, anche io mi arrabbio e inorridisco davanti alla violenza manifesta. Il guaio è che c'è anche una violenza molto più subdola, che succede tutti i giorni, che è davanti ai nostri occhi, eppure non la vediamo. Il libro, se sei appassionato di cani, te lo cosngilio con tutto il cuore. Rimarrai sorpreso e guarderai i cani con altri occhi! :)

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    2. Buongiorno Giovanni, molto bella la Sua recensione, mi piacerebbe molto approfondire il tema del libero arbitrio (in realtà "libertà di scelta" non è esattamente "libero arbitrio") e dell'uomo soprattutto come predatore (su quest'ultimo credo che molto sia dovuto alla mia ignoranza). Se vuole possiamo scriverci, il mio indirizzo è raffaele.mantegazza@unimib.it. Grazie

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    3. Raffaele Mantegazza2 giugno 2020 alle ore 13:11

      * soprattutto dell'uomo come predatore

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    4. buongiorno Raffaele! sono sinceramente emozionato e contento he le sia piaciuta la recensione. Con questo libro mi son fatto prendere la mano, volevo prorprio avere l'occasione di dire anche considerazioni mie, che ho maturato proprio grazie alla lettura dei vostri testi. Di suo, mi ricordo molto bene Ultimo scodinzolio, ci dicemmo che avremmo fato una chiacchierata. Quindi, le scriverò moto volentieri! a presto e grazie :)

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