lunedì 8 luglio 2019

Vivisezione, a Parma




Sabato è stata giornata campale. Come non si vedeva da tempo, tante associazioni, tanti gruppi, si son ritrovari riuniti per un unico obiettivo condiviso: la liberazione dei macachi dall'Università di Parma e la non esecuzione su di loro dell'esperimento Lightup all'Università di Torino.








Stai parlando di vivisezione: è probabilmente la pratica violenta contro gli animali che è più terrificante. Forse perché viene agita - questa è la credenza comune - in modo spassionato, con metodo freddo, in luoghi asettici e inaccessibili. Scatole nere da dove escono immagini - scattate da coraggiosi infiltrati, ma, tu pensi, anche dalle stesse persone che ci lavorano - di distruzione e prigionia di corpi senza scampo, un crescendo cruento di lacerazioni, ferite, torture.
Per molti che vedono queste immagini, la vivisezione è "inaccettabile a prescindere" (come scrive sul suo blog Rita Ciatti), suscita una reazione di rifiuto e di orrore irrefrenabili.
Nessuno vorrebbe che simili cose venissero eseguite su corpi di esseri umani, eppure quando i vivisettori ci pongono di fronte al distorto ricatto etico del 'bambino o il topolino', è difficile trovare le contestazioni efficaci, le risposte giuste. La vivisezione si (auto)rappresenta e si presenta come salvatrice, come risorsa indispensabile - certo, non è perfetta al cento per cento, dicono i vivisettori, tuttavia la sua percentuale di esperimenti riusciti per noi è accettabile. E comunque, anche gli errori, dicono, sono utili. Tanto - dici tu - quelli che vengono rinchiusi, fatti nascere a quello scopo, manipolati geneticamente, imprigionati, torturati, abusati, spaccati dentro e fuori - mica sono umani: sono solo corpi animali. Che importa se sono individui che vogliono disperatamente vivere? L'etica la mettiamo da parte - non proviamo nemmeno a impegnarci seriamente per cercare metodi di ricerca che non implichino la distruzione seriale di animali. Quello che mai oseremmo fare sugli uomini (ma siamo poi così sicuri?), continuiamo a farlo tranquillamente sugli animali, e non ci perdiamo di sicuro il sonno.

Pensate a quando siete in ospedale - come è capitato a te, l'anno scorso -  quando dovete fare un esame, una visita, quando avete a che fare con un medico, quando siete sdraiati in un letto, deboli, senza sapere che cosa vi verrà fatto.
Pensate ai prelievi di sangue, alle iniezioni, alle flebo, ai cateteri, che dovete subire, portare e sopportare per giorni o settimane. Pensate alla immobilità. Pensate alle anestesie per affrontare esami o interventi invasivi e cruenti. Pensate alle sonde.
Eppure, tutto questo, non dura che poche settimane - almeno, ce lo auguriamo! - il medico vi spiega, vi racconta, vi avverte. Chiede - se è un bravo medico - la vostra attenzione e accettazione. Il personale di infermieria dimostra pazienza verso di voi, vi ascolta e cerca di procuravi meno dolore o disagio possibile - ché, a volte, sono inevitabili.
Eppure, voi non siete più voi, ma solamente le sensazioni del vostro corpo, fisiche e mentali: un impasto di dolore, angoscia, di sofferenza, panico.

Quando sei stato in ospedale, a dicembre, non hai mai potuto non pensare agli animali vivisezionati: tutto quello che veniva fatto a te, era stato prima fatto su di loro. E di sicuro veniva fatto anche di peggio. E viene fatto di peggio: immagina di essere rinchiuso in una piccola gabbia, dove sei nato. Immagina che tutto il tuo orizzonte di vita si svolga dentro quello spazio e gli spazi artificiali - corridoi, sale operatorie - del laboratorio. Lì dentro, nessuno si preoccupa per te - nessuno sa nemmeno che esisti, fuori da lì -  sei solo un oggetto su cui fare e rifare azioni invasive e dolorose, una dopo l'altra, fino alla morte tua.
Rita Ciatti:  "Prova a immedesimarti. Per un attimo. Negli apparecchi di contenzione. Prova a immedesimarti al risveglio da un'anestesia, tutto dolorante, con il corpo e gli organi mutilati, senza sapere cosa ti hanno fatto e perché; o sottoposto a test di tossicità, costretto a respirare sostanze urticanti, soffocanti. E mi fermo qui. Mi fermo qui... " .
 
Le tue urla vengono azzittite e impedite. I tuoi tentativi di fuga vengono spezzati sul nascere.
Non esci mai dall'incubo che è la tua vita. Forse, qualche cellula del tuo corpo, 'sente' che la vita potrebbe essere qualcosa di altro, di diverso da dolore e prigionia senza fine e senza senso: ma tu, non lo proverai mai, non potrai mai saperlo. Morirai qui, dentro al laboratorio, quando non potrai più essere usato - perché troppo disfatto.


Dentro al corteo nazionale a Parma, c'erano tutte queste sensazioni, questi pensieri. Le immagini della vivisezione si imprimono nella consapevolezza e non se ne vanno più.
Le persone che hanno aderito, singoli o associazioni e gruppi, le avevano bene in mente - e le han portate in giro, sabato, su striscioni, cartelli, poster, bandiere.

Gli attivisti - che di solito si comportano come le bande del film "The Warriors" (1979) - han trovato una voce unita, sabato - oltre tutte le possibili divisioni, al di là di ogni possibile motivo di separazione.

Certo, i contenuti e le modalità e le strategie di lotta non sono tutte uguali - alcune sono più sensate o appropriate di altre - questo, fatto salvo il diverso contesto per ciascuna di queste, ché la varietà di azioni da fare è multiforme almeno tanto quanto le realtà e le situazioni che si vogliono contrastare. 
Sei d'accordo con Ciatti: ci sono contesti che devono vederci uniti. Ci sono obbiettivi per i quali occorre saper aggregare grandi numeri: la vivisezione è uno di questi obbiettivi. Il contrasto sarà efficace solamente se si saprà mandare un chiaro segnale, una voce unita e concorde, condivisa: che da fuori si vedano unione e decisione, la ferma volontà di fermare la vivisezione, di mettere di fronte tutti a nuovi imperativi etici - non più specisti, non più antropocentrici.
Che da fuori ci vedano che siamo tanti. Il corteo ha senso da mille persone in su - una entità collettiva riconoscibile, compatta, con una sua voce, con una sua volontà di ribellione a una situazione che viene accettata come normale - quando invece è del tutto anormale.
Guardate, siamo qui - dice il corteo al mondo - vogliamo cambiare le cose. Siamo qui per restare, siamo qui per essere tanti, sempre di più. Siamo qui per agire, tra i media, tra le forse politiche, tra le realtà istituzionali e tra l'opinione pubblica.
Ci ricordiamo di Green Hill. E vogliamo ripeterlo: non spariremo, dopo di oggi, ma torneremo.

Presto, perché i tempi sono stretti. I tempi, ci chiedono di essere uniti, tra noi solidali - perché solo la nostra unione potrà tentare di fare la differenza per quei macachi  -e per gli altri animali ingabbiati negli stabulari, in attesa eterna del loro turno in sala operatoria.


foto di Bruno Stivicevic

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