il bosco, Eleonora Vecchi e Natan Feltrin - Valderrodas |
Mettersi alla prova... intraprendere percorsi che ci danno l'occasione per testare alla prova dei fatti le noste idee, i nostri pensieri, le nostre teorie, le nostre filosofie.
Natan Feltrin ha deciso di fronteggiare le sue idee - le trovate in un libro: elaborazioni molto personali sul tema incandescente della over-popolazione di homo sapiens sulla Terra - mettendosi in viaggio e a lavorare - letteralmente - sul campo. Non è da solo in questa impresa.
Come avete conosciuto il progetto di Valderrodas Aldea?
Ci trovavamo
nella bassa Inghilterra per imparare da alcuni esperti locali come praticare
permacultura. Abbiamo vissuto lì alcuni mesi in un vecchio caravan parcheggiato
in aperta campagna a poca distanza dalla città di Salisbury. L’esperienza
inglese ci ha aperto le porte in maniera inaspettata circa realtà quali homeschooling, rewilding e resilienza sociale. Da questo punto di
vista il paese padre del capitalismo industriale e delle lobby della pastorizia
si è rivelato una sorpresa stimolante. Fu allora, tra giornate trascorse a
mettere le mani nel fango e lavorare umilmente il legno, che abbiamo saputo di
una coppia di ambientalisti inglesi in età avanzata migrati in Spagna per
creare un paradiso ecologico e sociale. Dopo la pace della campagna britannica
non era nostra intenzione trattenerci a lungo nel caos della Pianura Padana.
Così ci siamo imbarcati, a scatola chiusa o quasi, in una nuova avventura tra
le dolci montagne della Galizia. Quando siamo arrivati a Verducido non
conoscevamo nemmeno il nome del progetto al quale avremmo prestato braccia e
testa. Devo dire che, almeno in questa impresa, un po’ di incoscienza ci ha
portato molta fortuna. Conoscere Emma e Barney di persona non ha nulla a che
vedere con quello che si può leggere o intuire dal sito di Valderrodas Aldea.
In cosa consiste il progetto?
Il progetto consiste nella creazione di un villaggio in cui una comunità di circa venti persone possa autosostenersi tramite una dieta vegetale e l’uso di risorse rinnovabili senza nuocere all’ecosistema locale. Sin qui tutto lodevole, ma nulla di originale. Più interessante è l’applicazione di un principio etico-logistico di bioproporzionalità. In altre parole, dopo avere investito tutti i lori risparmi nell’acquistare un villaggio abbandonato i due hanno deciso che un terzo del terreno a loro disposizione dovesse essere pensato strettamente per interessi non-antropici. La loro idea, attenzione, non è quella di escludere in toto la presenza di vita selvatica dalla parte antropica bensì di stabilire per ogni metro dedicato alla coltivazione un corrispettivo dedicato all’espressione del wilderness in quanto tale.
Il progetto consiste nella creazione di un villaggio in cui una comunità di circa venti persone possa autosostenersi tramite una dieta vegetale e l’uso di risorse rinnovabili senza nuocere all’ecosistema locale. Sin qui tutto lodevole, ma nulla di originale. Più interessante è l’applicazione di un principio etico-logistico di bioproporzionalità. In altre parole, dopo avere investito tutti i lori risparmi nell’acquistare un villaggio abbandonato i due hanno deciso che un terzo del terreno a loro disposizione dovesse essere pensato strettamente per interessi non-antropici. La loro idea, attenzione, non è quella di escludere in toto la presenza di vita selvatica dalla parte antropica bensì di stabilire per ogni metro dedicato alla coltivazione un corrispettivo dedicato all’espressione del wilderness in quanto tale.
Qual'è la vostra opinione in proposito e che compito svolgevate?
Poetico ma inefficace? Forse… forse perché siamo quasi otto miliardi e perché abbiamo creato un sistema complesso dal quale non siamo più in grado di emanciparci. Tuttavia, progetti come questo mostrano un’altra strada percorribile, un altro modo d’essere umani, una via di fuga dall’Antropocene verso un biocentrismo etico ed un bioregionalismo politico. Diciamo che lì, in un luogo in odor di passato, si sperimenta un assaggio di futuro. Stando alla nostra esperienza di attivisti, studiosi ed ambientalisti la crisi ecologica è troppo grave per cercare in un ruralismo etico, vegano ed anticapitalista una soluzione efficace. Questa è una parte sicuramente fondamentale della transizione verso un mondo possibile, ma ovviamente avremo bisogno di politiche coraggiose, come mai non lo sono state, e del meglio dell’ingegno umano per rispondere allo shock ambientale a cui ci stiamo irrimediabilmente avvicinando. Ad ogni modo, come Barney e Emma ci hanno più volte ripetuto, il dilagare di piccole realtà locali resilienti come Valderrodas Aldea rappresenta una possibile contro-cultura nei confronti del nichilistico e consumistico appiattimento del reale alle logiche globali. Eppure iniziare dal piccolo, a volte, richiede sforzi titanici. Difatti, nemmeno la più autosufficiente comunità è una monade isolata dal più ampio contesto ecologico. Nello specifico, il dramma di Valderrodas Aldea è il trovarsi in quello che Barney ha definito “il deserto di Eucalipto”. E questo ci riconduce, dopo un tortuoso vagabondare, alla tua domanda: cosa facevamo lì? Fondamentalmente lottavamo contro il tempo e contro una specie vegetale altamente invasiva e dal potere distruttivo. Siamo tutti bravi a parlare di etica sino a quando stiamo seduti ad una scrivania, che sia quella di un ufficio universitario o che sia una più umile stanza domestica, ma là fuori la giostra della vita impazza ed impone le sue, talvolta assurde, regole. Io che ho scritto di intelligenza vegetale e biocentrismo non mi sarei mai visto brandire un’ascia e porre fine all’esistenza di un albero. Eppure, a volte, è necessario aprire gli occhi sulla realtà caotica e complessa di questo mondo. In certe zone d’Europa l’eucalipto, di origine australiana, è stato importato dall’industria cartaria poiché altamente efficiente, ma poi l’apprendista stregone che dunque siamo ha lasciato scappare la sua cavia ecologica ed il danno era oramai di proporzioni immani. L’eucalipto ha un’etologia focosa ed attraverso le fiamme elimina la concorrenza - piante, animali e artefatti antropici - per farsi largo e procreare. Ammetto che più e più volte abbiamo pensato a quanto questa specie non fosse poi così diversa dai sapiens e che per uno strano gioco della vita fossimo noi quelli con l’ascia e non il contrario. Tuttavia, seguendo i principi del rewilding, abbiamo ripulito per lunghi giorni l’area del progetto da questa specie infestante onde ridare un futuro alla foresta di querce nativa e a tutte le specie che solo in essa trovano un riparo ed un simbionte. Da poco tempo anche i governi del Portogallo e della Spagna stanno portando avanti un contenimento di questa specie, eppure ciò è dovuto alle morti umane e ai danni alle proprietà che l’eucalipto ha causato negli ultimi anni. Eccetto ai due eroici inglesi, e a pochi altri, della foresta di querce e dei suoi abitanti a quasi nessuno sembra essere finora importato.
Poetico ma inefficace? Forse… forse perché siamo quasi otto miliardi e perché abbiamo creato un sistema complesso dal quale non siamo più in grado di emanciparci. Tuttavia, progetti come questo mostrano un’altra strada percorribile, un altro modo d’essere umani, una via di fuga dall’Antropocene verso un biocentrismo etico ed un bioregionalismo politico. Diciamo che lì, in un luogo in odor di passato, si sperimenta un assaggio di futuro. Stando alla nostra esperienza di attivisti, studiosi ed ambientalisti la crisi ecologica è troppo grave per cercare in un ruralismo etico, vegano ed anticapitalista una soluzione efficace. Questa è una parte sicuramente fondamentale della transizione verso un mondo possibile, ma ovviamente avremo bisogno di politiche coraggiose, come mai non lo sono state, e del meglio dell’ingegno umano per rispondere allo shock ambientale a cui ci stiamo irrimediabilmente avvicinando. Ad ogni modo, come Barney e Emma ci hanno più volte ripetuto, il dilagare di piccole realtà locali resilienti come Valderrodas Aldea rappresenta una possibile contro-cultura nei confronti del nichilistico e consumistico appiattimento del reale alle logiche globali. Eppure iniziare dal piccolo, a volte, richiede sforzi titanici. Difatti, nemmeno la più autosufficiente comunità è una monade isolata dal più ampio contesto ecologico. Nello specifico, il dramma di Valderrodas Aldea è il trovarsi in quello che Barney ha definito “il deserto di Eucalipto”. E questo ci riconduce, dopo un tortuoso vagabondare, alla tua domanda: cosa facevamo lì? Fondamentalmente lottavamo contro il tempo e contro una specie vegetale altamente invasiva e dal potere distruttivo. Siamo tutti bravi a parlare di etica sino a quando stiamo seduti ad una scrivania, che sia quella di un ufficio universitario o che sia una più umile stanza domestica, ma là fuori la giostra della vita impazza ed impone le sue, talvolta assurde, regole. Io che ho scritto di intelligenza vegetale e biocentrismo non mi sarei mai visto brandire un’ascia e porre fine all’esistenza di un albero. Eppure, a volte, è necessario aprire gli occhi sulla realtà caotica e complessa di questo mondo. In certe zone d’Europa l’eucalipto, di origine australiana, è stato importato dall’industria cartaria poiché altamente efficiente, ma poi l’apprendista stregone che dunque siamo ha lasciato scappare la sua cavia ecologica ed il danno era oramai di proporzioni immani. L’eucalipto ha un’etologia focosa ed attraverso le fiamme elimina la concorrenza - piante, animali e artefatti antropici - per farsi largo e procreare. Ammetto che più e più volte abbiamo pensato a quanto questa specie non fosse poi così diversa dai sapiens e che per uno strano gioco della vita fossimo noi quelli con l’ascia e non il contrario. Tuttavia, seguendo i principi del rewilding, abbiamo ripulito per lunghi giorni l’area del progetto da questa specie infestante onde ridare un futuro alla foresta di querce nativa e a tutte le specie che solo in essa trovano un riparo ed un simbionte. Da poco tempo anche i governi del Portogallo e della Spagna stanno portando avanti un contenimento di questa specie, eppure ciò è dovuto alle morti umane e ai danni alle proprietà che l’eucalipto ha causato negli ultimi anni. Eccetto ai due eroici inglesi, e a pochi altri, della foresta di querce e dei suoi abitanti a quasi nessuno sembra essere finora importato.
Che cosa significa rewilding? Esistono progetti così anche in Italia?
Definire il rewilding è estremamente complesso. Almeno, lo è nel momento in cui si cerca di tradurne il significato etimologico in italiano (wild deriva da will, volontà. Wilderness indica dunque una terra che possiede volontà propria). Infatti, spesso noi parliamo di “terre selvagge” o di “natura incontaminata”, ma il rewilding è una chiamata proattiva volta a ripristinare il wilderness, ovvero una forma di ambiente capace di autodeterminazione e libertà. Non si tratta semplicemente di difendere specie a rischio o di salvare remoti angoli di paradiso lontani dai danni antropici. Con questo approccio si osa qualcosa di più radicale e, data la portata del degrado ecologico, urgente: ridare spazio di manifestazione ai processi ecologici, alle specie e ai singoli individui al di là di una onnipervasiva biopolitica umana. Il “come” di questa pratica assume plurime forme in base ai singoli casi: reintroduzione di specie chiave come i grandi carnivori, creazione di corridoi ecologici, rimozione di barriere antropiche, educazione alla convivenza con la fauna selvatica e molto altro. Ad ogni modo, si tratta di una filosofia della libertà che mira ad un mondo in cui non tutti i processi ecologici sono organizzati, gestiti ed utilizzati per fini antropici. Come creare uno spazio di esistenza libera per le altre forme dell’ente vivo? Non escludendo Homo sapiens, ma creando in esso corridoi di compassione volti ad una convivenza al di là delle logiche antropocentriche. Forse un esempio nostrano può aiutare a chiarire ciò di cui stiamo parlando. Quanti orsi bruni vivono in Trentino? Stando ai dati più aggiornati, dovrebbero essere tra i 50 e i 60. Eppure la percezione dei locali sembra essere che le Alpi letteralmente straripino di orsi. Ecco, questo è un problema che tocca al cuore il concetto di rewilding. Molto spesso, difatti, il nocciolo della questione non sta in cosa dovremmo fare per implementare la biodiversità, ma cosa dovremmo imparare a non fare: ridare volontà e spirito di autodeterminazione alla montagna significa lasciare i suoi abitanti essere senza uno spietato gioco di contenimento (quando una popolazione è sostenibile?). Non vi può essere vero rewilding senza una filosofia della bioproporzionalità e, se non mettiamo i più meri interessi antropici in cima alla scala dei valori, è intuibile che sessanta orsi a fronte di un milione di sapiens non possono essere moralmente ritenuti un problema. Dalla Slovenia e dalla Croazia, realtà nient’affatto perfette, avremmo molto da imparare! Per quanto riguarda i progetti italiani possiamo dire che qualcosa si sta muovendo, ma la sfida più ampia si giocherà in una sorta di rewilding politico e culturale: siamo davvero pronti a convivere con lupi, orsi, linci, cinghiali, cervi e altre specie senza un’ossessiva contabilità del vivente? Se nei prossimi anni prevarranno sempre più aggressive politiche pro-caccia, pro-contenimento e pro-eradicazione in risposta ad un vivace proliferare di fauna selvatica vorrà dire che avremo fallito culturalmente.
Quali pericoli e ostacoli affrontano questi progetti?
Definire il rewilding è estremamente complesso. Almeno, lo è nel momento in cui si cerca di tradurne il significato etimologico in italiano (wild deriva da will, volontà. Wilderness indica dunque una terra che possiede volontà propria). Infatti, spesso noi parliamo di “terre selvagge” o di “natura incontaminata”, ma il rewilding è una chiamata proattiva volta a ripristinare il wilderness, ovvero una forma di ambiente capace di autodeterminazione e libertà. Non si tratta semplicemente di difendere specie a rischio o di salvare remoti angoli di paradiso lontani dai danni antropici. Con questo approccio si osa qualcosa di più radicale e, data la portata del degrado ecologico, urgente: ridare spazio di manifestazione ai processi ecologici, alle specie e ai singoli individui al di là di una onnipervasiva biopolitica umana. Il “come” di questa pratica assume plurime forme in base ai singoli casi: reintroduzione di specie chiave come i grandi carnivori, creazione di corridoi ecologici, rimozione di barriere antropiche, educazione alla convivenza con la fauna selvatica e molto altro. Ad ogni modo, si tratta di una filosofia della libertà che mira ad un mondo in cui non tutti i processi ecologici sono organizzati, gestiti ed utilizzati per fini antropici. Come creare uno spazio di esistenza libera per le altre forme dell’ente vivo? Non escludendo Homo sapiens, ma creando in esso corridoi di compassione volti ad una convivenza al di là delle logiche antropocentriche. Forse un esempio nostrano può aiutare a chiarire ciò di cui stiamo parlando. Quanti orsi bruni vivono in Trentino? Stando ai dati più aggiornati, dovrebbero essere tra i 50 e i 60. Eppure la percezione dei locali sembra essere che le Alpi letteralmente straripino di orsi. Ecco, questo è un problema che tocca al cuore il concetto di rewilding. Molto spesso, difatti, il nocciolo della questione non sta in cosa dovremmo fare per implementare la biodiversità, ma cosa dovremmo imparare a non fare: ridare volontà e spirito di autodeterminazione alla montagna significa lasciare i suoi abitanti essere senza uno spietato gioco di contenimento (quando una popolazione è sostenibile?). Non vi può essere vero rewilding senza una filosofia della bioproporzionalità e, se non mettiamo i più meri interessi antropici in cima alla scala dei valori, è intuibile che sessanta orsi a fronte di un milione di sapiens non possono essere moralmente ritenuti un problema. Dalla Slovenia e dalla Croazia, realtà nient’affatto perfette, avremmo molto da imparare! Per quanto riguarda i progetti italiani possiamo dire che qualcosa si sta muovendo, ma la sfida più ampia si giocherà in una sorta di rewilding politico e culturale: siamo davvero pronti a convivere con lupi, orsi, linci, cinghiali, cervi e altre specie senza un’ossessiva contabilità del vivente? Se nei prossimi anni prevarranno sempre più aggressive politiche pro-caccia, pro-contenimento e pro-eradicazione in risposta ad un vivace proliferare di fauna selvatica vorrà dire che avremo fallito culturalmente.
Quali pericoli e ostacoli affrontano questi progetti?
Il problema
dei problemi è l’ignoranza umana. E con ciò non intendiamo l’ignoranza
scientifica, ma quella empatica. Gli interessi economici, sia che si parli di
allevatori locali che di amministratori delegati, tendono a caratterizzare il
comportamento sociale degli individui e in una giostra di costi e benefici è
difficile capire la genuinità delle intenzioni altrui. In un mondo
sovraffollato, uno dei sentimenti predominanti è lo scetticismo disilluso, dalle
conseguenze devastanti. L’empatia è un’arma a doppio taglio: se si vuole
rendere il mondo un posto migliore bisogna essere aperti all’altro, ma non al
punto da lasciarsi espugnare senza possibilità di resistenza. Persone come Emma
e Barney si trovano a dover portare compassione e speranza in una terra molto
diversa dalla campagna inglese ove i locali oscillano facilmente in uno spettro
di emozioni che va dalla curiosità al sospetto. In tutto ciò, la Brexit non aiuta minimamente poiché rende il
panorama socio-culturale ancora più imprevedibile. Da un punto di vista più
politico, infatti, la grande sfida è riuscire a vincere la tentazione del
solipsismo nazionalista mirando, invece, a uno scambio di informazioni e aiuti
più costante sul territorio europeo. Nessuna sfida ambientale può essere
sottomessa a confini politici.
Infine: cosa pensate della sesta estinzione antropica?
Tra i diversi punti di non ritorno violati da Homo sapiens la perdita di biodiversità è sicuramente il fenomeno più aberrante eticamente e preoccupante ecologicamente. Come abbiamo sostenuto più volte, non ci troviamo nell’Antropocene o nel Capitalocene, bensì stiamo navigando dritto verso l’Eremocene. Ciò che ci attende è una solitudine di specie. Il tasso di estinzione non è mai stato così elevato dai tempi della morìa dei dinosauri e, in questo caso, l’asteroide siamo Noi. Un “Noi” non generalizzabile, è vero, ma comunque un “Noi” esteso: l’estinzione della megafauna precede l’avvento del capitalismo! Come ho scritto in Umani,troppi umani ciò che occorre è una demografia più-che-umana. In altre parole, se l’antispecismo non è un falso concetto, esso deve essere applicato non solo a come mangiamo ma anche a quanto ci riproduciamo. Molti su questo punto cercano di arrampicarsi sugli specchi, ma è innegabile che 7 miliardi di sapiens siano un disastro per le altre specie. Vero è che esistono filosofie animaliste le quali non si curano affatto dell’estinzione, poiché solo gli individui paiono dei soggetti morali… Beh, a nostro avviso il paradosso di un certo tipo di etica animale è il diventare una dittatura morale antropocentrata: noi decidiamo che il dolore è il massimo dei mali ed in base a questo principio poniamo la vita tutta a un tribunale. Che dire? Ci sono cose più urgenti alle quali pensare. Una su tutte è quella di ripristinare gli equilibri ecologici secondo principi di bioproporzionalità, motivo per il quale progetti come Valderriodas Aldea sono ciò cui la comunità dei viventi ha davvero bisogno.
"una foto da film", dice Natan. Se un giorno verrà realizzato, questa dovrà esserne la locandina |
tutte le foto di Andrea Natan Feltrin e di Eleonora Vecchi
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