supervillain malthusiano (da una idea di Pellegrino Dormiente, opera di Niki Winston, per il libro di Andrea Natan Feltrin) |
L'estinzione della specie Homo (una specie ancora giovane, ma anche troppo precoce, per qualcuno) è al giorno di oggi (e forse non solo...) una sorta di fascinoso mito-religione della fine, del trapasso - contrapposto e speculare al mito delle origini, al mito cosmogonico - (si potrà parlare di estinzionismo?).
Tralasciando il sottile brivido che i catastrophic movies regalano agli spettatori, che vedono l'umanità (sempre e solo l'umanità... e gli altri animali che abitano il pianeta?) sconfitta da glaciazioni, meteoriti, epidemie e molto altro, ci sono dei libri che si occupano dell'argomento (i testi di Alan Weisman) e ci sono dei documentari.
Tralasciando il sottile brivido che i catastrophic movies regalano agli spettatori, che vedono l'umanità (sempre e solo l'umanità... e gli altri animali che abitano il pianeta?) sconfitta da glaciazioni, meteoriti, epidemie e molto altro, ci sono dei libri che si occupano dell'argomento (i testi di Alan Weisman) e ci sono dei documentari.
Tra l'altro, anche l'etimologia della parola 'catastrofe' è interessante, ché il capovolgimento può non essere annichilente del tutto e -si sa - quel che il bruco chiama fine della vita, il modo chiama farfalla. Il tutto con un retrogusto - almeno oggi - di 'nemesi-latria', con propositi estinguisti.
Pensieri sparsi, dati dalla rilettura della sostanziosa intervista virtuale con Natan Feltrin, filosofo, che ha scritto "Umani Troppi Umani" (Eretica Edizioni -2017 - pag 173). Hai letto il libro con enorme interesse. Con Natan e il suo testo, siamo di fronte a una esplosione di concetti e di idee, proiettati sul futuro del pianeta, per capire se di questo futuro faranno ancora parte gli umani - e in che modo, caso mai. Per non scrivere una intro più lunga dell'intervista, rimandi molte domande e un parere sul libro a post prossimi futuri.
D1 La fantascienza è presente nel tuo libro, sotto varie forme. Vorrei perciò citarti, almeno per divertimento intellettuale, due racconti.
Uno è "La micidiale missione di Phineas Snodgrass", di Frederick Pohl, in Urania 845, "44 microstorie di fantascienza", 1979
Trama: lo scienziato Phineas Snodgrass scopre il viaggio nel tempo e con l'intento di migliorare la vita umana, torna indietro ai tempi della massima espansione dell'Impero Romano, portando con sé poche potenti scoperte scientifiche. In breve, la mortalità cala drasticamente, mentre aumenta la natalità. Nel giro di pochissimo tempo la Terra è letteralmente ricoperta di umani, che cominciano a scavare fino al suo nucleo, per far posto ai corpi. Alla fine, il pianeta è una massa aggrovigliata di miliardi di corpi umani, che hanno prosciugato anche il sole. Con le ultime energie, costruiscono una macchina del tempo, con 1 solo passeggero e una unica missione: uccidere Phineas Snodgrass con un colpo di fucile. La missione riesce, per il sollievo di tutti i miliardi di miliardi di miliardi di umani mai nati.
Il secondo racconto è "Il collezionista" (Urania Millemondiestate 1988) di George RR Martin.
Tuf è uno scienziato che propone soluzioni drastiche per risolvere la sovrappopolazione e la fame su un pianeta alla fine delle sue risorse e invaso da umani.
La domanda: la fantascienza assolve solo il compito di paradossale parabola esemplificativa o ci sono spunti per un cambiamento di paradigma della visione sociale?
R1 - La fantascienza è un luogo di incontro tra l’arte, ovvero l’anticipazione del futuro, e la scienza, la comprensione del presente, per questo può regalarci scorci su orizzonti lontani, improbabili, forse impossibili, ma con il gusto del verosimile. Laddove la fantascienza è ben riuscita l’obiettivo non è un volo pindarico su futuribili assurdi, bensì la provocazione delle categorie morali di Homo sapiens una volta traslate in luoghi differenti, distanti, non-presenti. Ciò che la fantascienza stuzzica è la possibilità di spingere al limite massimo la figura etica dell’umano in un terreno che chiamerei “fanta-morale” o “fanta-politica”. Con questo non intendo elogiare quel fare filosofia che si arrovella su se stesso in preda ad un tedio accademico pericoloso ed irrazionale… La fanta-etica deve essere un’oltre-etica, o meglio un’esplorazione etica dell’oggi a partire da un non-domani. Mi sto avvinghiando verbosamente su me stesso? Chiedo venia… Provo a spiegarmi in termini più semplici: in questi paesaggi non reali ciò che viene ad essere testata non è tanto la nostra fantasia “patafisica”, bensì la nostra elasticità etica nei confronti di un mondo sempre costitutivamente cangiante. Per questo il mondo ha bisogno di sognare, non solo utopie, ma anche distopie onde ricomporre il proprio quadro assiologico. In tale ottica, opere letterarie quali La falce dei cieli di Ursula K. Le Guin, Tutti a Zanzibar di John Brunner, Monade 116 di Robert Silverberg, Largo! Largo! di Harry Harrison e film quali Zero Population Growth di Michael Campus e Soylent Green di Richard Fleischer hanno lo scopo di sfidare la nostra capacità di figurarci vie di fuga dagli orrori del domani.
Antropocene, per me, non significa niente di diverso che testare la fantasia morale di una specie che ha posto se stessa sull’orlo di un precipizio sia valoriale che materiale. In un brevissimo arco di tempo Inferno di Dan Brown, Seven Sisters di Tommy Wirkola, Downsizing di Alexander Payne e l’ultimo capitolo degli Avengers hanno risvegliato nell’opinione pubblica lo spirito di Malthus rendendo la bomba demografica nuovamente un argomento pop. Ognuno di questi contributi meriterebbe un’attenta analisi in sé. In questa sede posso solamente suggerire l’incredibile ruolo di grimaldello che l’arte, fantascienza e oltre, può e deve ricoprire oggi per aprire i cancelli di un dibattito sistematicamente rimosso dalla coscienza collettiva.
D2 La tecnologia a tutto oggi viene vista come super-rimedio per ogni difficoltà presente e futura, risorsa capace di scongiurare il precipitare della catastrofe, a dispetto del dirupo di Seneca.
La tecnologia, schematizzando tre alternative, può: 1forzare i limiti dell'ambiente, concepito come mera risorsa materiale; 2.forzare i limiti della specie umana (transumanismo); 3.gettare ponti e aprire soglie, riportando l'umano dentro il contesto Gea o biosfera. Ha senso secondo te questo schema e quale delle tre è preferibile? Anche tenendo presente il paradosso di Jevons?
R2 La tecnologia è da sempre inscritta nell’etologia umana. Credo che parlare di tecnologia spesso comporti un errore terminologico: quando diciamo “tecnologia” intendiamo tanto gli apparecchi tecnici, o artefatti, di cui disponiamo per interagire con gli altri enti del mondo, tanto un’idea di manipolazione di un mondo futuro che sarà sempre più “alla portata” dell’umano. Tecnica e progresso divengono, dunque, inesorabilmente e pericolosamente, due volti della medesima medaglia. Forzare i limiti dell’ambiente non è una valida opzione, è ciò che da sempre è stato portato avanti dalla civiltà umana. Siamo l’essere confinario che non ha confini, come disse il filosofo tedesco Georg Simmel, perciò non vi è modo di costringere questo essere che dunque siamo entro limiti “troppo” circoscritti. Con il nostro corpo-mente stiamo cercando di compiere la medesima impresa: l’evoluzione, concetto assente in natura ove regna più propriamente la trasmutazione, è un desiderio fisso della specie Sapiens. Purtroppo, o per fortuna, non è attraverso una tecnica portata al parossismo che potremo navigare attraverso le tempeste dell’Antropocene. Serve un nuovo tipo di umanità, se così la si vorrà chiamare, un essere multiforme capace di abitare condizioni ecologiche senza precedenti, ma soprattutto capace di decisioni politico-morali estreme ed imprevedibili. Il punto è che i meccanismi cognitivi della mente umana dovranno essere cablati su di una dimensione del rischio che non ha precedenti nella storia. La geo-storia non si risolve solo tramite opere geo-ingegneristiche, ma attraverso cambi radicali di paradigma.
In questo tristemente confido: non tanto in una fortunata contingenza quanto in una capacità di imparare dalla catastrofe e lentamente tornare alla vita, quella che vale la pena vivere. Il paradosso di Jevons in tutto ciò non ha che un senso marginale, quello di ricordarci la nostra schiavitù cognitiva per quanto concerne i cambiamenti sociali. In pratica, rinforza la tesi che non sempre siamo in grado di fletterci senza spezzarci a fronte di un mondo che cambia e ci impone di cambiare.
D3 A volte si ha l'impressione che termini come Antropocene o persino Eremocene paghino un loro pegno apparentemente aggirato all'antropocentrismo, poiché tutta la vicenda planetaria viene filtrata dal setaccio del destino umano. In questo modo, non diventa da particolare a generale? Come si può affrancare da questo (apparente?) antropocentrismo? Non è altrimenti una tautologia che blocca ogni soluzione?
R3 L’animalità, nel suo senso esteso alla zoé tutta, è il silenzio della grammatica umana. Almeno questo è quello che in molti pensano al giorno d’oggi. Ovviamente noi tutti abitiamo sulla soglia del paradosso ogni volta che portiamo in tribunale il nostro prospettivismo ego(antropo)-centrato. Che neologismi gonfi di fascinazione quali “Antropocene” ed “Eremocene” manchino il bersaglio? Beh, se lo pensassi davvero non sarei chino a scrivere queste parole. Il nostro linguaggio è uno strumento emendabile, ma ontologicamente parziale, andare oltre l’antropocentrismo, a mio avviso, non è che scagliare frecce contro un mostro ideologico che abbiamo creato a partire da un sentire di specie non emendabile. Leonardo Caffo si è espresso brillantemente circa i modi di gettare un ponte oltre il paradosso espresso da Nagel in What Is It Like to Be a Bat? Io, invece, non sento come mia questa possibilità. Credo l’animalità vada percorsa come un recupero della propria etologia a partire da una riscoperta della propria corporeità e del proprio ambiente, al di là dei vincoli del verbo umano. Detto questo, non credo che l’antropocentrismo epistemologico possa essere rimosso… Quello che si può fare è attuare un re-wilding “interiore” e demolire l’intero castello dell’ontologia antropocentrica. Questo però è un percorso che si apre oggi, ma che si potrà compiere solo nel domani, un domani in cui noi saremo già divenuti cenere e risorti nel ciclo del carbonio.
D4 Infine. C'è una soluzione? Mi pare di intravvederla nella rottura del tabù demografico, che finalmente appare all'ultima pagina: il controllo delle nascite. E ancora: come mai calcoli in 98% la percentuale di vertebrati umani e animali addomesticati? Vero è che le specie cosiddette selvatiche son sempre più minacciate. Ma se allarghiamo la visione all'intera massa biosfera (quindi anche piante e organismi pluri o monocellulari, oltre che funghi, batteri, ecc) , come diventano le percentuali?
R4 Se vi è una soluzione? Il problema è culturale ancor prima che politico-pragmatico. Una politica del figlio unico? Non la augurerei a nessuno… O meglio, forse risolverebbe gran parte delle miserie in cui l’umanità, e non solo, incorre su questo fragile pianeta. Ad ogni modo, pur preferendo, senza nascondermi dietro un velo di eufemismi, politiche totalitarie alla catastrofe malthusiana, credo che il problema debba tutto risolversi con l’educazione sessuale-etica-ecologica. Senza rivoluzionare il cardine dell’educazione in Italia ed in ogni altra nazione, la partita contro la crisi ecologica sarà sempre persa prima dell’inizio. Solo a seguito di uno slittamento culturale le politiche nataliste saranno rigettate ed i fondi per la pianificazione familiare potranno essere a flusso crescente sia nei paesi ricchi, ma con discutibile accesso alla contraccezione, sia nei paesi avvolti nella trappola della povertà estrema.
Per quanto concerne, invece, l’antropomassa essa è insignificante se comparata alla biomassa degli altri viventi in toto. Se, però, la si guarda dal punto di vista della vita mammifera i numeri rendono ragione al termine Età della Solitudine. Un mondo in cui il mammifero più selvatico sarà il gatto di quartiere mi spaventa ed atterrisce spiritualmente.
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