lunedì 18 giugno 2018

Allevamento, storia di un dominio

L'aratura, 1000 d.C. ca., Londra, British Library

  Francesca Fugazzi

Centinaia di milioni di animali massacrati ogni giorno per scopi alimentari. Centinaia di milioni. Ogni giorno. Una cifra che si ripete, implacabile, nell’indifferenza - quasi - generale. 




foto di gruppo pisana - Bruno Stivicevic


Dovrebbe essere chiaro, che il far nascere, l’ingabbiare, l’ammazzare - e con tempistiche programmate - un individuo appropriandosi del suo corpo, annullando totalmente la sua capacità di autodeterminarsi, strappandogli la vita, sia un’orrenda ingiustizia. Eppure, avviene, normalmente.
Si dice “si è sempre fatto così”, “l’uomo ha sempre mangiato animali”, “è la natura”, “è la catena alimentare”.
A questo punto potrei anche dire che l’uomo la guerra l’ha sempre fatta.
Ma sappiamo che non è così (e anche se così fosse sarebbe quindi giusta?)
L’uomo è animale ed animale non è. L’uomo non nasce razionale, economico, tecnologico. Lo diventa nella sua relazione con il mondo e con gli animali. 
Quando l’uomo ha iniziato a pensare di essere diverso?
Nell’immaginario dell’uomo primitivo gli animali sono addirittura assimilati a divinità ed ammantati di magia. E la visione magica del mondo è un modo per esorcizzare il terrore dell’esistenza, la paura dell’ignoto, il disagio dell’insicurezza, il senso di colpa nel togliere la vita a un animale. Una magia che non è più natura, ma non ancora razionalità.
Avviene qui, in questo luogo del passato, un cambiamento graduale e culturale in cui l’uomo diventa un trasformatore massiccio della realtà in cui vive. Parliamo del Neolitico, ovvero dell’ultima età della pietra. Parliamo di diecimila anni fa.
Gli uomini iniziano a controllare gli animali, coloro coi quali hanno convissuto sullo stesso pianeta per duecentomila anni: non solo decidono della loro morte ma anche della loro vita.
Si diffondono il dominio e la domesticazione. E più l’uomo si rende conto di superare la paura atavica e l’angoscia legata alla sopravvivenza, proprio grazie a dominio e domesticazione, più quel sentiero si fa marcato. Più l’uomo si sente sicuro, più diventa forte, più prende le distanze dall’essere animale.
Le parole “dominio” e “domesticazione” hanno la medesima radice, in comune con il termine “domus”, casa, il posto in cui ci sentiamo padroni e sicuri. E’ il nostro linguaggio a dirci quali siano i termini della questione. L’uomo stanziale dà avvio a una serie di pratiche che alimentano un formidabile sviluppo tecnico, anche e soprattutto con il controllo, la manipolazione e lo sfruttamento degli animali nella forma dell’allevamento. Zootecnia, ecco di cosa stiamo parlando. Zoon, animale, e tecné, arte. L’arte di perfezionare gli animali domestici e di adattarli a bisogni determinati.
Questa prassi è divenuta forma di pensiero, attitudine mentale, sedimentatosi in noi generazione dopo generazione, normalizzando sopruso e sfruttamento, banalizzando la violenza.
E’ per questo che quando oggi contestiamo tale meccanismo che ha una storia millenaria, le resistenze e le obiezioni che emergono sono acerrime, pervicaci, irrazionali, ataviche. Stiamo turbando l’inconscio collettivo, dissodando la rimozione di chi gira la testa altrove. Un’amica mi ha brillantemente suggerito: “qui non stiamo combattendo solo contro delle realtà che sfruttano gli animali, qui stiamo combattendo contro la nostra stessa definizione di esseri umani”. Una definizione antica, ma non biologica, non naturale; una definizione che può essere modificata se comprendiamo però che ha una connotazione storica.
Abbiamo coltivato le terre conquistate facendo trainare l’aratro ai buoi (cioè tori castrati e domati); abbiamo conquistato il mondo stando in groppa ad un cavallo (a un cavallo domato). E noi da quel cavallo - immaginario, metaforico, quasi un totem - non ci vogliamo scendere.
Senza gli animali abbiamo paura di restare a piedi, di essere nulla, di perdere la nostra identità, le nostre radici, la nostra forza, la nostra sicurezza. Le società ancora oggi dipendono dallo sfruttamento degli animali. Le economie sono basate sullo sfruttamento degli animali. E il punto cruciale è che non ve n’è alcuna necessità.
Senza animali abbiamo paura di essere poveri. Capitale e pecunia, derivano dal latino caput e pecus, rispettivamente capo (testa) di bestiame e gregge. Gli animali significavano ricchezza. E ciò è inscritto nel nostro immaginario tanto che, per fare un esempio, un pasto senza carne e senza grassi animali è considerato dai più un pasto misero.
Le possibilità che invece la realtà attuale ci offre sono ben diverse da quelle delle società rurali. L’imprinting però è rimasto e la sofisticazione della tecnica degli ultimi due secoli, l’aumento demografico e di reddito fanno dell’allevamento la causa di un’ecatombe sconfinata. E pur avendo gli smartphone in mano, siamo, in un certo senso, ancora all’età della pietra. 

Bisogna iniziare a immaginare un mondo diverso. Un mondo in cui scendiamo - una volta per tutte - dalla groppa di quel cavallo e iniziamo a camminare davvero con le nostre gambe di bipedi sapienti. E in questo ci metto ogni attività umana che preveda sfruttamento perché gli sfruttamenti sono molteplici. Abbiamo una potenzialità tecnica che può andare ben oltre lo sfruttamento sistematico e totalitario di esseri senzienti. Certo, bisogna volerlo, come individui e come società. Diamo per scontato che un’innovazione non possa che essere di natura tecnologica. E invece no. L’innovazione dovrebbe essere innanzitutto di natura sociale, etica, economica e politica.

Un’altra età dell’uomo e della donna, che fanno un passo indietro per farne cento in avanti. Perché gli animali non sono al servizio dell’umanità, anche se è questo che la nostra cultura specista ci ha inculcato. Gli animali semplicemente devono vivere per sé stessi.

Non chiediamo compassione. Non dobbiamo amare gli animali per non sfruttarli. E non chiediamo unicamente di non ucciderli, chiediamo di non controllare le loro vite, di non farli più nascere appropriandoci dei loro corpi a partire dai loro apparati riproduttivi, inseminando forzatamente le femmine perché producano nuova materia prima.
Oggi, come antispecisti non vogliamo vogliamo fare leva sul senso di colpa, ma sul senso di giustizia.

Una società che voglia dirsi civile non può più accettare supinamente una simile violenza: guardandosi indietro e facendo autocoscienza, deve uscire dalla propria storia di dominio, per scriverne una diversa, di giustizia e di libertà.


Francesca Fugazzi a Pisa - foto di Bruno Stivicevic


testo letto all'evento Chiudiamo tutti i mattatoi - Close all slaughterhouses - Pisa, 9 giugno 2018 - Piazza XX settembre (organizzazione: Fine dello Specismo - Azione Mondiale)






Nessun commento:

Posta un commento

TUTTI POSSONO COMMENTARE, ANCHE IN FORMA ANONIMA! (EDIT 2018: HO CAMBIATO IDEA: ALMENO UN NOME IN FONDO AL COMMENTO E' GRADITO, PER NON DOVER RISPONDERE CON UN EHI, TU!). PER ANONIMO, SI INTENDE CHI NON E' ISCRITTO - PER QUALSIASI MOTIVO - AI FOLLOWER. Ma visto che è possibile il commento anche non iscritti, considero una forma di gentilezza scrivere almeno un proprio nome :) )

(EDIT 2 2018: qualsiasi messaggio che contenga pubblcità, promozioni, contenuti promozionali di carattere commerciale o finanziario, di qualsiasi tipo e genere, verrà immediatamente e automaticamente cancellato e gettato nel cestino dell'oblio. promoter avvisato...)

SE sei interessat* a seguire La Confidenza Lenta, prova a cercare l'elenco dei lettori fissi e a cliccare sul tasto azzurro 'segui' Dovrebbe permetterti di iscriverti, se ti fa piacere.

In alternativa, puoi lasciare un commento allo stesso post, quando viene condiviso sulla pagina Facebook della Confidenza, e segnalare se vuoi rivederlo ri-postato qui

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...