sabato 6 ottobre 2018

Per la Fine dello Specismo - Il discorso di Marco Maurizi: una sola vita che palpita e guizza nell’enigmatico silenzio del cosmo

foto di Mario Belfiore

Giornata Mondiale per la Fine dello Specismo – 
Roma 29/09/2018 


Uno spettro si aggira per l’Europa. È lo spettro dell’animalità. La nostra animalità repressa, di cui abbiamo paura e che ci terrorizza nella libertà senza confini e senza scopo della vita animale. 



 
foto di Bruno Stivicevic


E per scacciare questo spettro terrorizziamo la vita animale nell’altro: la incarceriamo, la mortifichiamo, la prosciughiamo, la spezziamo. Ogni vita animale piegata e infranta è una vittoria dell’umano contro lo spettro della sua animalità che lo ossessiona. Una vittoria di Pirro. Perché ogni violenza perpetrata sul vivente non fa altro che dimostrare la cieca voracità della bestia umana, l’unico animale, come diceva Derrida, cui abbia senso attribuire l’aggettivo “bestiale”. Vivamo in tempi in cui la nostra animalità ci viene incontro ovunque, e ovunqe ne fuggiamo inorriditi. Nelle miliardi di vite animali che in questo stesso istante stanno agonizzando nelle nostre industrie, nelle grandi migrazioni dei popoli reietti che in questo stesso momento stanno piangendo in un lager libico o affogando nel mediterraneo. La vita senza protezione, la vita che chiede solo di vivere e verso la quale non usiamo né pietà, né giustizia ma solo il potere distruttivo dell’indifferenza generalizzata, questa vita ci guarda con occhi terrorizzati e ci terrorizza perché ci dice: io sono come te. Accettare questo sguardo, restituire questo sguardo implica un cambiamento nella nostra percezione di noi stessi, in quell’immagine di umano maschio bianco razionale tecnocratico e dominatore nella cui illusione di potenza viviamo come dormienti.
Viviamo una sorta di sonnambulismo collettivo, che ci separa gli uni dagli altri, vendendoci sogni da quattro soldi che ognuno sogna per conto suo. Dagli oscuri recessi della vita marina ai grattacieli più avveniristici è invece una sola vita che palpita e guizza nell’enigmatico silenzio del cosmo. Noi facciamo parte di quella vita, ma continuamo ad agire come se essa ci fosse estranea, anzi, ci appare un ingombrante peso di cui vorremmo liberarci. Noi siamo qui a dirvi oggi che smettere di considerare la vita animale una merce non vi toglierà nulla se non l’amara solitudine in cui vi siete rinchiusi.
Siamo soli: nelle nostre stanze, nei nostri uffici, nelle nostre fabbriche. Siamo anonimi: nelle nostre metropolitane, nei centri commerciali, nelle statistiche elettorali. E ogni tanto ce lo diciamo: cominciamo a uscire da queste mura, cominciamo a riprenderci la vita. Ma non potremo farlo se continueremo a imprigionare e togliere la vita degli altri. Il vitello che piange la madre, i pulcini mandati al massacro in massa perché superflui. Non sono solo simboli della nostra solitudine, del nostro essere anonimi. Sono vite che un sistema di annientamento ha reso nulle, che ha sequestrato, isolato, svuotato e infine cancellato. Contempliamoci in questo sistema di reclusione e tortura perché questo noi siamo, questo è il mondo abbiamo prodotto, questa la quotidianità infernale che scorre silenziosa nel frastuono delle nostre vite affannate. Come possiamo pensare di vivere come signori e padroni di un sistema che è il signore e il padrone delle nostre vite? Nessuno si illuda di installarsi al centro di un meccanismo di sfruttameno e distruzione senza esserne travolto. Siamo soli, siamo anonimi. E lo saremo sempre finché la vita animale soffrirà solitaria e anonima nelle camere di tortura della nostra tirannia di specie. Scrolliamoci di dosso il vestito crudele dell’imperatore. Perché esso ci illude di essere quel potere che annienta anche le nostre vite. È solo nella nudità del popolo animale che possiamo sperare di riconquistare una libertà che possa essere davvero per tutti.
Esiste un momento nella storia di una moltitudine in cui questa moltitudine scopre di essere un popolo. Scopre di avere qualcosa in comune, scopre di potersi riconoscere in questa comunità, scopre di poter condividere un mondo. Non si è un popolo perché si abita la stessa terra, o si condivide uno stesso linguaggio o una cultura: l’anima di un popolo è una conseguenza, non una premessa. Essere un popolo, scoprirsi un popolo, vuol dire infatti qualcosa di più che “essere”: significa agire, costruire, produrre un mondo in comune. Si scopre di essere un popolo quando si agisce in modo conseguente e le conseguenze delle nostre azioni ci rivelano a noi stessi la nosta comune appartenenza.
Ebbene essere animali o essere terrestri significa essere un popolo. Ed è arrivato il tempo che noi scopriamo questo nostro essere e scopriamo i diritti e i doveri, o meglio ancora, le potenzialità che derivano da questo nostro essere un popolo. Essere animali o essere terrestri significa essere un popolo. È al tempo stesso il tramonto dell’idea tradizionale di popolo e la sua massima realizzazione. Perché un tempo un popolo era identificato dai confini che lo serravano in un’identità, dall’orgoglio che lo divideva dagli altri popoli, in un lotta per l’accaparramento delle risorse; essere popolo significava esclusione del diverso, trionfo del conformismo interno, fede in una patria e in un dio.
Il popolo degli animali, il popolo di noi terrestri è fatto di un’altra pasta, guarda verso un orizzonte che abbraccia, non esclude. Ciò che noi oggi possiamo fare riconoscendo la nostra discendenza ancestrale dalla natura, l’amicizia che abbiamo tradito con gli altri animali, è ammettere finalmente che il mondo che condividiamo non ci appartiene. Kant diceva che non c’è alcun merito nell’essere nato al di qua o al di là di una frontiera, e per questo l’accoglienza è un dovere. Noi, tutti, umani e animali, apparteniamo alla terra, non lei a noi. “Rimanere fedeli alla terra”, come scriveva Nietzsche, significa scoprire la radice comune del nostro appartenerci come esseri animali, sofferenti, bisognosi di protezione dalla violenza e dal sopruso.
Quando portiamo il nostro messaggio di pace nei confronti degli altri animali, ci guardate con sospetto, ci vedete come estremisti, come pazzi che vogliono mettere il mondo a soqquadro. Guardatevi intorno e giudicate voi stessi: è questo l’ordine di cui andate tanto fieri? Quale disordine può portare la nostra parola di amicizia nei confronti degli animali nel vostro caos organizzato di sfruttamento e morte? Ve lo diciamo noi: è il disordine felice di un’umanità che si è riappacificata col proprio altro e, dunque, anche con se stessa. All’indomani della rivoluzione francese Saint Just disse: “la felicità è un’idea nuova in Europa”. Intendeva la felicità politica, quella che arride a un popolo quando si erge contro la tirannia e prospera di una vita condivisa nella reciprocità e nell’egualitarismo. L’idea che gli animali siano un popolo, che noi facciamo parte del popolo degli animali, implica che la felicità è un’idea che possiamo e dobbiamo condividere con loro. Ed è contro la tirannia dell’Uomo che dobbiamo insorgere, anche perché dall’abbattere questa tirannia non abbiamo nulla da perdere, come diceva Marx, tranne le nostre stesse catene. Non c’è felicità nell’accumulazione e nell’accaparramento, non c’è felicità nello sfruttamento e nella prevaricazione. La felicità non si costruisce nei calcoli meschini ma ha la forma smisurata dell’inatteso e dell’incommensurabile. Edificando un mondo a nostra immagine e somiglianza, in cui programmiamo al dettaglio la nostra vita e la morte altrui, ci condanniamo a cancellare ogni traccia di questa felicità, rendendo impossibile l’incontro con l’altro, umano e animale, contemplandoci nello specchio mortifero dell’egoismo generalizzato.
Nessuno sfugge più a questa turpe legge dell’io che non sa più dire noi. Anche se è solo dicendo “noi” e se è solo includendo in quel “noi” gli altri animali che potremmo disinnescare la catastrofe sociale, umanitaria, ecologica, preferiamo alzare altri muri, gridare contro gli ultimi, rintanarci nelle miserie invidiose dei populismi. L’apertura del popolo animale è l’antitesi del populismo, forse l’unico antidoto possibile. I popoli che hanno sofferto per decenni lo strapotere delle cricche dominanti ora insorgono e si offrono in pasto ai demagoghi che promettono libertà in cambio di odio verso il diverso, che continuano a offrire una speranza solo togliendola a chi sta peggio. Ancora e ancora sono i più umiliati e offesi a farne le conseguenze. Non a caso i leader del nuovo irrazionalismo dilagante amano i cacciatori, le armi, ostentano il piacere della carne, disprezzano l’uguaglianza di genere. Sono alfieri della stessa cultura guerrafondaia e machista che ci ha portato fin qui: “maschi” veri, pragmatici, per i quali l’ambiente è terreno di conquista e l’ecologia un inutile intoppo. Andiamo così verso conflitti sempre più intesi, su scala sempre più ampia, migrazioni di popoli si affacciano sul prossimo futuro, una violenza endemica che scuote la coscienza delle nostre metropoli sempre più grandi, disfunzionali, brutte, abbandonate a se stesse. Ecosistemi impazziranno, intere specie spariranno, altri miliardi di individui animali saranno sacrificati. In questo clima di odio, diffidenza, disperazione sembriamo tutti destinati al “macello”, termine con cui Hegel, non a caso descriveva la storia dei popoli. Tutti coinvolti, nostro malgrado, in questa guerra che l’umanità ha dichiarato contro il resto del vivente e che la dilania dall’interno. Ebbene noi siamo disertori della vostra guerra. Noi siamo disertori della vostra umanità che non ci rappresenta. Noi non siamo in grado di pensare l’umanità come un marchio di superiorità o restare cinicamente indifferenti al destino di chi soffre. Per noi, “essere umani” significa riconoscerci non figli di un dio sterminatore, ma animali che vogliono vivere una vita di pace e di condivisione senza barriere, senza esclusione, senza prevaricazione. E a coloro che si riconoscono figli di un dio d’amore, chiediamo: quale amore può giustificare la pianificazione industriale del genocidio animale? Quale amore può rendere accettabile lo stupro, lo sgozzamento e tutte le forme di violenza che perpetriamo su animali inermi?
Noi ci chiamiamo fuori da una prassi sociale fatta di discriminazione del diverso in ogni sua forma, dalla logica del profitto che ci trasforma in cose, da un apparato tecno-scientifico che rende manipolabile a piacere il vivente. Perché questi tre pilastri sostengono lo stato attuale del mondo e lo spingono verso un’apocalisse annunciata. Odio razziale e violenza patriarcale servono a giustificare e imporre la mercificazione e lo sfruttamento del lavoro; la tecnologia intensifica questo sfruttamento, produce meccanismi polizieschi di controllo sulla vita, crea nuovi organismi da cui generare profitto ecc. Una spirale di dominio che è difficile da spezzare se non la si osserva nella sua interezza e nel suo funzionamento. Guardare il mondo dalla prospettiva degli animali significa contestare alla radice questi pilastri, vedere la catena nella sua interezza, che è poi l’unica possibilità che abbiamo per tentare di spezzarla. Cosa cambia nel nostro modo di stare al mondo quando scopriamo che l’umano è solo una delle forme assunte dalla natura per gettare uno sguardo sul mondo? Gli animali ci precedono nell’evoluzione e, probabilmente, ci sopravviveranno. Non dovremmo chiederci cosa possono fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per loro. Che contributo sta lasciando la nostra specie su questo pianeta? Di cosa potremmo essere fieri una volta che non ci saremo più? Di ben poco se tutto ciò che abbiamo prodotto finora è la nostra stessa miseria e la morte programmata di miliardi di animali, la sfarzosa opulenza delle elite e le urla e il sangue di quelli che Brecht chiamava i “corpi torturabili”. Noi vogliamo invece un mondo in cui la diversità non sia invocata a giustificare l’oppressione ma lo scambio; immaginiamo una società umana che si lasci attraversare dalle società animali con cui condivide la biosfera, immaginiamo un mondo in cui dare del “porco” a qualcuno non sia più un’offesa. Perché il nostro linguaggio rispecchia gli stereotipi della discriminazione umana e il disprezzo che la tradizione spiritualista delle grandi civiltà riserva ai non-umani, dove per essere veri uomini occorre spezzare ed estirpare dentro di se tutto ciò che ricorda l’imprendibilità dell’animale: la donna, il bambino, il sognatore. Ma non saremo mai pienamente umani se non sapremo essere donna, bambino, sognatore, se non torneremo a risvegliare l’animale che abbiamo scacciato.
Impariamo a guardarlo dall’alto questo mondo, con gli occhi tristi di Laika, la cagnolina mandata a morire da sola nello spazio perché l’uomo potesse espandere il suo dominio oltre l’atmosfera. Da lassù vediamo un mondo senza frontiere, un mondo dove nessun umano e nessun animale è illegale, varca confini, vìola proprietà private.
Vogliamo un mondo in cui non si possa dire dei migranti che “vivono come animali”, perché in un mondo senza patrie da difendere non ci sono migranti; e perché nel mondo che vogliamo non ci saranno lavori da schiavi e, soprattutto, perché avremo finalmente smesso di considerare la vita animale una vita indegna di essere vissuta. Di qualcuno che “vive come un animale”, come diceva Adorno, dovremmo piuttosto avere invidia, perché ha trovato la misura del proprio stare al mondo, perché fa un “bel nulla”. Mentre il nostro nulla, quello con cui riempiamo le nostre giornate, non solo è oberato di cose inutili, ma è anche, è proprio il caso di dircelo, terribilmente brutto. Gli manca la grazia senza colpa e senza ansia dell’animale. E questa grazia continuerà a sfuggirci finché non impararemo a condividere la vita, finché non inventeremo un modo di stare insieme in cui al profitto sia sostituita la solidarietà.
Saremo un popolo, saremo terrestri solo quando praticheremo una solidarietà che vada oltre la nostra specie. La verità di tutto quello che ci piace raccontare di noi stessi sta fuori di noi, la sua misura è nell’altro. Saranno solo e sempre gli altri a restituirci l’immagine di ciò che siamo. E il nostro altro, per antonomasia, è l’animale. Rendiamo giustizia all’animale se vogliamo mostrarci giusti. Solo allora dimostreremo praticamente di essere quello che oggi ci illudiamo di essere, solo allora parole come “giustizia”, “uguaglianza” e “libertà” avranno trovato una misura che abbatta i muri, restituisca il maltolto, affranchi la schiavitù. Se non sapremo liberare gli animali, se non sapremo immaginare una libertà senza confini non riusciremo nemmeno a vedere le nostre catene. La misura della nostra libertà è la libertà che sappiamo tollerare nell’altro. Solo una smisurata libertà può restituirci ad una vita che bandisca l’oppressione e lo sfruttamento.
A chi ci dice che questi sono solo sogni, non abbiamo che da mostrare l’incubo reale in cui siamo sprofondati, un incubo che è tenuto in piedi dalla nostra illusione millenaria di essere una specie sovrana ed eletta; senza questo sogno ad occhi aperti le mura delle nostre prigioni, dei nostri mattatoi e delle nostre fabbriche non reggerebbero un secondo di più. Il nostro mondo cambia in base alla pasta dei sogni di cui è fatto. Siamo come Kafka, imprigionati nel corpo di un mostruoso insetto in cui fatichiamo a riconoscerci. Ogni notte coviamo in sogno lo stesso mondo mostruoso che al mattino seguente mettiamo in opera nei gesti quotidiani. Vi chiediamo di cambiare il vostro sonno angoscioso con un più dolce e ambiguo risveglio. Come Zhuangzi che sognò di essere una farfalla ma non era sicuro, una volta desto, se la farfalla non avesse piuttosto iniziato a sognare lui. Sognare la farfalla era stato certo bello: quanto può essere bello per un animale sognare un umano? Dovremmo iniziare da qui, indirizzare le nostre vite da svegli in modo che non turbino i sogni degli altri animali. Cercare di essere qualcosa che valga la pena di essere sognato.


immagine di Budger's Barrow


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