... e per chi quel giorno lì, inseguiva una sua chimera.
Ma non stiamo cantando, non stiamo facendo festa. Anche se qualche canzone rock, qualche inno di battaglia, forse a questo punto, ce lo meriteremmo.
Perché ciò che vedono gli attivisti presenti ai presidi della campagna nazionale NOmattatoio è niente altro che questo: il puro squallore della riduzione in schiavitù e merce di un individuo vivo - di milioni, di decine di milioni di individui vivi.
Quel giorno - il giorno del IX presidio NOmattatoio, davanti ai cancelli del macello di Torino, in via Traves, una via delle periferie più grattugiate dal cemento - tu questa volta non c'eri. Causa di forza maggiore - l'auto ti ha lasciato a piedi nel bel mezzo dell'autostrada - ma in ogni caso, quel giorno lì, il tuo corpo non c'era. Non c'è stato a fianco degli altri corpi umani presenti, come nei mesi trascorsi, a far da richiamo, a far da memento. Ecco perché, per non farla tanto lunga, hai voluto mettere tutte queste foto, scattate da chi c'era, davanti ai cancelli. Senza di queste foto, di loro, degli individui ritratti proprio in queste foto, non rimarebbe più nemmeno la memoria. Quelle foto, hanno riportato in primo piano la singolarità. l'individualità, il volto della vittima - sia pure nell'unico e ultimo guizzo della sua esistenza. Poca consolazione, forse, per chi la foto l'ha fatta. E di certo, nessuna consolazione per chi nella foto è stato ritratto. Ma sono le immagini - già lo hai scritto, altrove; già è stato scritto anche da altr* - a dar conto della memoria, per noi umani. E saranno queste immagini, si spera, a dar spinta al cambiamento. A raggiungere - e così completiamo la canzone - ciascuno la sua chimera. (la chimera- utopia di un modo diverso, nuovo, di mettersi a fianco a, in relazione con, gli altri animali coi quali condividiamo il pianeta).
PS
fermatevi un attimo a osservare meglio l'ultima foto.
In questa foto, per un caso della prospettiva e della inquadratura, le sbarre coprono il volto del prigioniero, che quindi non vediamo. Estrema, ulteriore beffa, ultimo sfregio, affronto finale alla dignità distrutta. Quindi, questa foto è un fallimento? Secondo te, no. Immaginate la scena (a te l'hanno raccontata). Mattino presto ma non troppo. C'è fila, davanti ai cancelli. Giganteschi autosnodati con ben due rimorchi stracolmi di corpi, sono preceduti o seguiti da piccoli camion, che caricano uno o al massimo due corpi vivi. Come in questo caso: questo toro si è sdraiato nelle proprie feci, aveva lo spazio per farlo, era il suo unico sollievo a stanchezza, caldo, sete, paura, confusione, disorientamento. Lui reagisce alla nostra presenza, alza lo sguardo. Le grosse sbarre, tipiche di un camion piccolo, ce lo nascondono. Ma non ci viene nascosta la realtà della situazione: che il camion piccolo proviene da una stalla piccola, forse di quelle cosiddette 'come una volta'. Questo animale, che scopriamo essere un toro di una specie allevata apposta per trarre carne anche dai maschi, ha vissuto con ogni probabilità fino a questa mattina presto, o a ieri sera tardi, tra un recinto al pascolo e una stalla con la paglia. Ma è stato non di meno caricato senza complimenti su un camion per fare la strada fino al macello. Adesso, il suo destino si unisce a quello degli individui mal nati negli allevamenti industriali zootecnici. Non esiste la fattoria felice, non esiste la 'carne felice': sono finzioni irrealistiche e bugiarde. L'unica e sincera differenza che conta è la dimensione del camion. Perché l'unica cosa che conta - nel delirio di onnipotenza antropocentrico - è il percorso fino al luogo dello smembramento, per la rivendita dei pezzi.
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