venerdì 30 settembre 2016
giovedì 29 settembre 2016
martedì 27 settembre 2016
Autunno caldo con cani (I cani sono al di qua della foto)
Questa foto l'ho fatta con Ipad qualche giorno fa. l'ho scattata in un momento di relax, in un posto molto bello, dove mi trovavo insieme a Lisa, Maika e Chicco e ad altri amici cani e umani. Ho scoperto che questo luogo, che mi piace pensare situato a un crocevia tra varie terre che conosco, tutte in Piemonte (anche se magari non è proprio così, ma qui conta la geografia bambina della fantasia e delle avventure), è un Paradiso per cani. Ché, Paradiso, nel pensiero comuni di chi ama i cani si associa al Ponte dell'Arcobaleno. Solo che, in questo caso, il ponte è qui, a due passi, si tocca, si attraversa, si calpesta. La gioia è in questa vita, non occorre aver superato arcobaleni per trasferirsi nella dimensione invisibile. La vita viene vissuta in piena libertà: i cani liberi di essere se stessi, di espriemere il loro carattere, senza le affrettate, affannose, frettolose censure a cui sono troppo sottoposti quando devono vivere in realtà del tutto inadatte ai cani, come le città - quando non cinofobe, più o meno scopertamente. Gli umani con loro, a loro volta, liberi di poterli osservare per come in troppo poche occasioni possono essere, e quindi liberi di farsene sorprendere.
Ecco, mi son detto, un'altra ZTL, una Zona Temporaneamente Liberata: dove l'incontro tra umani e cani, ma anche gatti, lepri, lucertole, e altri, avviene senza la tirannia della riduzione di chi ci sta di fronte, a 'cosa' da consumare. Mi sentivo come in un altro tempo e luogo - e specialmente alla sera, sotto le stelle precoci, come nell'aia di una casa di campagna in un film degli anni 50 - idealizzato. Una oleografia per visualizzare qualcosa che potrebbe anche assomigliare/diventare una comunità allargata, con tempi, ritmi, aspirazioni, "in direzione contraria" - grazie, Annamaria Manzoni - rispetto a quelli mainstream (consumo, possesso).
Una serie di giornate brevilunghe tra colline famose, per ri-conoscere da vicino il nuovo autunno caldo (con foglie verdi, sole che scotta, insetti tra cespugli) che è diventato la norma, nell'era dell'Antropocene. Son capitate cose, risate e conoscenze, chiacchiere e scoperte. Visioni da altre angolazioni di cose condivise, come il cibo, come la vita con i cani. Bello, e perciò ci tornerò. E intanto andrò - se ci riesco, ché ci son dei contrattempi - nei posti dove spero e voglio andare nei prossimi giorni (per esempio, Torino Spiritualità), con queste belle sensazioni a farmi da carezza emotiva.
venerdì 16 settembre 2016
D'Istinti Animali, Distinti Animali
Che su questo blog si parli di (con, su per, tra) animali, salta all'occhio.
Che Torino Spiritualità - normalmente - NON si occupi di animali, è altrettanto risaputo (anzi, anche di più).
Così, quando ho scoperto, alla conferenza di Peter Singer, che quest'anno gli animali sarebbero stati il punto di partenza dell'intera manifestazione, mi sono ripromesso di assistere, per ascoltare con orecchio avido, curioso e magari anche soddisfatto, tutti i relatori potenzialmente interessanti - dal mio punto di vista.
Esagerato proposito, ché, per assistere a una porzione significativa del mega evento, bisognerebbe farsi clonare, o avere per lo meno il dono dell'ubiquità. Al massimo, si può piluccare qui e là, segliendo dal menù alla carta, i titoli che ci appaiono più stuzzicanti (vuoi per il tema, vuoi per il relatore, vuoi per la location, e altri elementi, magari anche solo di contorno). Così, memore dell'esperienza torinospirituale dell'anno scorso, quest'anno, ho adottato una strategia differente.
Il mega evento si articola, da quel che mi è parso di capire, in vari filoni: ci sono le conferenze, ci sono i momenti spirituali-religiosi-meditativi, ci sono i concerti - e le letture, gli spettacoli teatrali, le mostre, insomma tutta la parte artistico-espressiva.
Ho deciso di concentrarmi solo sulle conferenze, e tra queste, solo quelle che ho sentito più affini: quelle che sembrano quindi più direttamente concentrate sugli animali-in-quanto-animali (e non simboli o pretesti per parlare di qualcosa d'altro, o qualcuno d'altro: l'uomo). Poiché infatti il baricentro è e rimane tradizionalmente umanistico/antropocentrato/antropocentrico (opinione personale), ho pensato di comportarmi come scrissero che si comportavano Fruttero & Lucentini quando decidevano quali libri leggere e quindi recensire: scegliendo, cioè, solo le proposte che mi interessano, che potrebbero piacermi e lasciarmi qualcosa di emotivamente, intellettualmente, filosoficamente, culturalmente: interessante, emozionante, intelligente, coinvolgente. Per ritrovare il piacere di averle ascoltate, magari raccontandole e commentandole con piacere qui sul blog. Insomma: la vita è breve, non sprechiamola a parlar male di chi non ci piace, ma rendiamo bello e utile il tempo che scorre, facendo magari conoscere chi ci piace o ci è paciuto.
Così, se in linea generale il filo conduttore delle conferenze sembra assumere come dato di fatto che gli animali sono puro istinto, che gli animali sono da noi separati (con tutte le disquisizioni separatorie che gli umani si raccontano da secoli), che gli animali sono un modo per parlare sempre e soltanto di noi stessi (specchio specchio delle mie brame) (ma che, in fin dei conti, una letterina di rispetto, potremmo anche scrivergliela), mi sono andato a cercare tutte quelle occasioni dove mi sembra che si parli di animali come esseri intelligenti (e di umani forse non così come credono), di animali come esseri sociali, di animali come comunicatori; di animali come nostri compagni, condivisori di spazi, di tempi, di storie; che gli animali parlano di se stessi, per se stessi, e che magari non sono interessati al nostro interesse nei loro confronti.
Mi preparo dunque una personale agenda torinospirituale 2016, con tutte le conferenze che vorrei ascoltare, sperando di assistere a tutte (so già che non sarà possibile: a Torino con me, verrà la mia famiglia canina, i miei soci - questo termine è di Elena Vanin; per cui, dovrò dare loro il giusto tempo e spazio, per vivere i giorni dell'evento nel migliore modo canino possibile).
[continua]
mercoledì 14 settembre 2016
Heart of the sea
Il titolo del film, lo conoscete, la locandina magari è meno famigliare. Più diffusa è quella con i volti degli attori e la coda della balena. Mi piaceva di più questa. però. La trovo maggiormente evocativa e significativa.
Il film di Ron Howard è ispirato al libro omonimo di Nathaniel Philbrick, un nome che sembra preso di peso da Hawtorne o dallo stesso Melville. E magari è così. O magari, nomen omen, vai a sapere. In ogni caso, uno di quei nomi che sembrano scolpiti nel legno, intagliati, quasi, lettera per lettera.
Il libro parla della storia vera e terribile della nave baleniera Essex, a cui si ispirò Melville per il suo seminale masterpiece MOBY DICK.
E questa è la cornice del film, che ha le tinte atmosferiche così cinematograficamente seducenti dei film storici ambientati in quel periodo di tempo.
Il quadro del film, invece è la storia della sfortunata caccia baleniera, dello scontro tra due personalità antitetiche, come quella del capitano e del primo ufficiale, di tempeste e isole remote, di avventure tragiche, di naufragi. E di altre cose tremende.
Attratto come sono dai film dove gli umani dividono la scena e la storica con altri animali, Heart of the Sea, anche per tutte le caratteristiche elencate sopra, non poteva che piacermi. Così, dopo averlo visto quando è uscito nelle sale, l'ho rivisto oggi, in DVD, con grande piacere. La prima impressione è che sembra assai più breve di come lo ricordavo. O forse, ne ho colto meglio il ritmo, questa volta.
La seconda impressione è data dalla somma di alcuni dettagli che al cinema mi erano sfuggiti. Provo ad annotarli.
- Che gli umani riescono sempre a esplicare al meglio la loro principale caratteristica etologica, l'abilità di manipolare, in ogni modo possibile, la realtà delle cose (una manipolazione che è sia concreta che simbolica): il che si traduce in una attitudine predatoria formidabile, realizzata con ogni mezzo possibile;
- Che - di conseguenza - la caccia alla balena, non è mai stata 'ad armi pari', nemmeno allora, ai suoi inizi: dal punto di vista della balena, l'uomo è sempre stato un alieno, che arriva all'improvviso, incomprensibile e mescolato e confuso in mezzo a una nuvola di oggetti inanimati e pericolosi, un pulviscolo di 'cose', fatte di fuoco, ferro, legno morto, che gli servono per aggredire, intrappolare, catturare e uccidere;
- Che, almeno per alcuni momenti, il punto di vista della balena, ci è chiaramente raccontato per immagini, sia pure brevemente e quasi in modo trasversale (finalmente, dopo decine di opere creative dove la balena è il 'mostro crudele e sanguinario'): vediamo il branco di balene, che si credono al sicuro nel vero centro dell'oceano, lontanissimo da qualsiasi luogo umano, e che scappano quando invece arrivano gli aggressori; le balene, in quelle acque, hanno la loro più autentica casa, la famiglia, i figli, il loro futuro - che cercano di proteggere: la madre fa da scudo col suo corpo, l'arpione morde la sua carne, mentre il figlio le nuota accanto, toccandola, alla ricerca della salvezza nel profondo; che la balena bianca è colui che difende il branco, la famiglia, i figli, il futuro, dall'aggressione mortale; che, perciò, progetta ed esegue con consapevolezza il proprio contrattacco, la distruzione fisica del predatore umano;
- Che, in una situazione mortale e senza scampo, i corpi umani possono tornare a essere solamente nuda carne e diventano fonte di sopravvivenza, come i corpi delle balene; e come questi, dopo morti, sono oggetto di una lavorazione - macellazione - smembramento - smontaggio; il ribrezzo nasce dal fatto che umani eseguono queste operazioni su altri umani; non si compie nessun salto empatico, non avviene l'immedesimazione, la pietà non si allarga anche alle balene uccise in passato.
Magari ci sarebbero tante altre cose da dire, il film è molto articolato. A me stava a cuore cercare di comprendere meglio il punto di vista delle balene. Queste creature abissali, che forse avrebbero (avuto) moltissimo da raccontarci, se avessimo (avuto) la voglia, la pazienza, la capacità di ascoltarle. In ogni caso, c'è chi lo ha fatto.
Tempo Profondo - gambero gigante anomalocaride nuota nel mare Cambriano, 520mln anni fa
Ricostruzione di Tamisiocaris borealis. (Cortesia Bob Nicholls/Bristol University) |
martedì 13 settembre 2016
Departures
Ho rivisto il film in DVD l'altro giorno, con ritrovata sorpresa e commozione.
Departures affronta il tema della morte e del lutto. Un tema spinoso, che può creare angoscia e rifiuto, specialmente per gli umani che vivono in Occidente. Non a caso, forse, il film è giapponese!
Eppure, la morte fa parte della vita; non è sbagliato imparare a farne conoscenza. Questa considerazione è probabilmente banale, ma non è banale la necessità che esprime. Altrimenti, la morte non susciterebbe orrore e terrore, né quelli che lavorano nelle sue vicinanze subirebbero uno stigma sociale, portatore di rifiuto e vergogna. Chi ha voglia di guardare il film fino alla fine, invece, scoprirà che queste persone - almeno in una piccola cittadina giapponese, e almeno i personaggi della storia - sono custodi di pietà e difensori di dignità.
Il film ha un bel ritmo, ha umorismo; in più, è sempre presente lo sguardo partecipe verso gli animali che vivono intorno a noi, nelle nostre città, nei luoghi rimasti liberi dalla presenza umana, che confinano con le città. Gli animali appaiono a sorpresa, quando le anatre spiccano il volo o quando i salmoni risalgono il fiume. Appaiono anche nei piatti delle persone, quando diventano cibo. C'è un polpo, ancora vivo in cucina, che Daigo (così si chiama il protagonista) ributta in mare. C'è un pollo, il cui cadavere viene portato intero in tavola, in una cesta. Quando Daigo lo vede (reduce dal suo primo incontro con un corpo morto umano, una anziana donna morta da giorni in solitudine), ha conati di vomito, si alza dalla tavola, non riesce a mangiarlo: guarda i suoi occhi chiusi, il capo piegato. Dove gli altri vedono cibo, lui, almeno per questa volta, vede un corpo che una volta era vivo, un individuo che non voleva morire. Quasi tutto il cibo che i personaggi del film mangiano, "apparteneva a un cadavere", come dice a un certo momento il personaggio di Ikuei Sasaki, il principale di Daigo. "Gli esseri vivi mangiano gli esseri morti per vivere", dice ancora. La sua morale termina così:"Se vuoi vivere, devi mangiare. E se devi mangiare, allora mangia bene". Derrida, che cosa direbbe? Sasaki parte dalla eterotrofia, che permea tutto il vivente, per arrivare alla gastronomia, il cibo-come-cultura: spesso, un alibi per giustificare pratiche eticamente non giustificabili, né più accettabili. La pietà che i due tanatoesteti riservano agli umani, non si estende agli animali, che vengono anzi ingurgitati con voracità, in varie occasioni. Vedi, per esempio, la scena del Natale, che per altro è ricchissima anche di altri temi che si intrecciano in un tutto armonico e piacevole da vedere. Solo le piante, dice, fanno eccezione. Sono autotrofe, si nutrono di sostanze estratte dalla terra o dall'acqua, traggono energia dalla luce solare. Anche le piante, però, alla lunga, si nutrono di esseri morti, anche se tanto tempo prima, ormai disciolti nel terreno.
Departures non è film animalista, non si occupa di etica o di rapporti tra umani e altranimali. Il suo racconto si focalizza su altre cose, anche se gli animali fanno e hanno fatto la loro comparsa. Quello che è interessante, però, è che proprio il focus del film - il lutto, la pietà, il tempo del pianto, del ricordo - può (e secondo me, deve) riguardare anche gli altri animali; e la salma di quel pollo, adagiata intera nella cesta sulla tavola, è lì per avvertirci di questa possibilità.
"Dare a un corpo divenuto freddo, una bellezza che dura per sempre, con calma, con precisione, ma soprattutto con tanta amorevolezza. Pur nella tristezza dell'ultimo addio, quanto viene eseguito per preparare il defunto, immersi nel silenzio pieno di pace, mi appare meraviglioso" , pensa Daigo, a un certo punto.
Va detto che il "per sempre" a cui Daigo si riferisce è assai breve: dura finché il corpo nella bara non vengono bruciati, nel forno di cremazione. Ma si potrebbe pensare che ci troviamo ad avere a che fare con un "per sempre" emotivo, soggettivo, dei e per i congiunti ancora in vita. Qualsiasi eternità immaginata dagli umani, poi, è minuscola, se paragonata alla eternità universale. "Chi muore giace, chi vive si dà pace".
Una cosa che mi ha colpito, che non credo possa mai avvenire in Occidente: la preparazione del defunto, la vestizione, avviene alla presenza e alla vista dei parenti. Pur con delle precauzioni rituali e legate a una certa forma di pudore, per cui del morto non si vede mai il corpo nudo, a parte il viso, le mani e i piedi. Il resto del corpo rimane sempre coperto, via via, da vari tipi di stoffe o indumenti, fino all'abito finale, definitivo. Il che rende l'intera cerimonia assai complicata, e piuttosto lunga, il rito del Nokanshi. Anche il 'tanatoesteta', cioè chi esegue il rito, compie tutto usando solo il tatto, procedendo lungo una memoria sensoriale tattile che acquisisce negli anni, percorrendo centinaia di membra e di corpi, di epidermidi e di articolazioni.
Il risultato dei suoi gesti, minuziosi, lenti, pazienti, distaccati, trasparenti e allo stesso tempo amorevoli, sconcertano chi li osserva. Commuovono: facilitano lo scioglimento di ogni freno, le lacrime iniziano a sgorgare , facendo tracimare lungo le guance dei vivi, i ricordi, i rimorsi, l'affetto provato e la gratitudine per chi ha causato questo, cioè il cerimoniere tanatoesteta, che ha reso possibile la catarsi.
Una combinazione, credo, tutta giapponese: il nokanshi, come ikebana, vive di minuziosi, delicati dettagli, che ricompongono una realtà nuova, più ampia e partecipe, che facilmente libera le emozioni più profonde, ce le rende consapevoli.
Alla fine, Daigo prova su se stesso l'effetto catartico del rito: tocca a lui ricomporre il corpo del padre, morto a settanta anni, dopo una vita da pescatore (e tutta la sua vita è racchiusa in una scatola di cartone). Non lo ricordava, si accorge che non lo avrebbe riconosciuto in giro per strada; ma quando, piano piano, si prende cura del corpo, con gesti che non possono non avere in sé anche almeno un sentore di cura e di affetto (stringere le mani, accarezzare, pettinare...), i ricordi ritornano, il viso paterno sfocato riemerge, e ha una dolcezza sconvolgente, un sorriso di occhi che dice tutto quello che non riesce a uscire dalla bocca.
Alla fine, anche Daigo piange. Il sasso che lui aveva dato da bambino a suo padre, lo ritrova stretto nel pugno irrigidito del corpo paterno. Un sasso che concentra una vita intera e che lui dona al figlio in grembo a sua moglie, la giovane Mika Kobayashi, con i suoi trasparenti limpidi sorrisi diffusi in tutto il suo corpo.
Alla fine, il film ci lascia con leggerezza, uno spiraglio sul futuro di questi giovani che abbiamo incontrato in questo momento della loro vita. Dal lutto, hanno trovato nuova forza: dal tempo preso per poter piangere, per permettere ai ricordi di ritrovare un senso e di riannodarsi al presente. Un tempo individuale, la cui lunghezza è personalissima e soggettiva: ciascuno lo vive con tappe sue personali. Proprio perché è il tempo per prendere congedo da qualcuno che abbiamo amato e che ci ha amato.
Questo è tanto più vero, intanto, con i compagni non umani che fanno la loro vita accompagnandoci per un po' nella nostra.
Altre considerazioni sociali, politiche, si possono fare e sono state fatte sul lutto dovuto agli animali, individui o specie, selvatici o sinantropi, oppure addomesticati o soggiogati: sono argomenti interessanti e spero di poterne parlare, ennesima promessa promemoria del e per il blog - e per chi ha voglia di leggerlo, se c'è qualcuno con voglie simili.
Che siano - questi altranimali - con noi per libera scelta, per casualità, per necessità, non mancano mai di segnarci profondissimamente. Il dolore per la loro dipartita spesso è più cocente che per la morte di compagni umani. Non perché degli umani ci importi di meno; ma perché - io penso - i compagni altranimali si connettono istantaneamente e direttamente alla nostra consapevolezza autentica. La mettono a nudo, magari anche a noi stessi. Perciò, il rapporto è così intenso e profondo, così privo di finzioni; così tutto da vivere e giocare sul piano della sensazione, con coraggio e senza esitazioni. La voglia fisica e mentale insieme, di gioco, di comunanza, lo scambio di emozioni che informano vite intere, sono quello che possiamo ritrovare, stando insieme a loro. Per scoprire che siamo molto più animali di quel che ci illudiamo di (non)essere. Il che, sarebbe, a parer mio, un risultato da augurarsi.
lunedì 12 settembre 2016
Haiku sotto le fucilate della caccia
che colpo cupo
ripetuto vicino
il cuore in gola
Lepre nei prati
Non mai un cacciatore
Sulle mie orme!
Alcuni degli Haiku scritti sulla ripa di un campo, in autunno avanzato. Qualche tempo fa.
Al tramonto. A passeggio con Stella. Il silenzio viene rotto dai rimbombi dei fucili. La paura stringe il cuore e diventa urgente ritornare sui propri passi, per il rischio di venire colpiti. Sentirsi come in guerra, sentirsi catturati in una imboscata teaditrice.
Bisogna capovolgere i punti di vista. Entrare nella pelle di un altro |
martedì 6 settembre 2016
"Povero, caro genio squinternato"
Così lo ricorda "il Mostro", per salvarlo dai villici infuriati contro lo "scienziato pazzo", dopo che ha ricevuto una seconda vita, a sua volta, da quello scienziato.
Epitaffio più bello, forse, non avrebbe voluto - ho pensato, mentre rivedevo per la infinitesima volta QUEL film: l'ho pensato all'istante, mentre vedevo la scena, sul finire del dvd. E, come tutte le volte precedenti, mi intenerivo, preda di una piccola commozione, grattugiata di gioia.
Ecco perché con questo post, piccolo piccolo, breve breve, semplice semplice, riprendo in mano il blog dal lato della tastiera - finalmente! dopo più di un anno di Ipad e di disimparare a scrivere e organizzare i pensieri.
Gene Wilder appariva, probabilmente lo era davvero, squinternato. Ma anche caro (ricordate la moglie, Gilda Radner, alla quale è stato vicino durante la malattia del cancro?). E anche un pizzico geniale. Un genio gentile, mi piace pensare, ma volitivo, anche. Altrimenti, "Frankenstein Junior", non sarebbe stato così, è facile supporre.
Così come? Per esempio, con uno scienziato in tre tempi: il primo, freddo e arrogante chirurgo; il secondo, appassionato e folle sperimentatore; il terzo, appunto, squinternato e coraggioso, che "ha usato il suo corpo come fosse una cavia" , per salvare il Mostro.
Tutto, sempre, col gusto del teatro e dello spettacolo. Sempre, con una soffusa gentilezza.
giovedì 1 settembre 2016
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