Nei suoi rigorosi e poetici "Quaderni Giapponesi" (ne sono usciti due volumi), Igort parla degli Hikikomori - 引きこもり; o 引き籠もり- da hiku, 'tirare' e komoru 'ritirarsi'.
Sono persone, giovani, in crisi: sono entrati in crisi quando sono usciti dal liceo, per iniziare ad affrontare l'Università. Non reggono alla pressione della rigida competizione, onnipresente nella società giapponese. A modo loro, si ribellano: la depressione, il disordine alimentare, lo sconvolgimento e capovolgimento dei ritmi circadiani, la reclusione volontaria del corpo e la virtualizzazione di tutte le attività fisiche e sessuali, sono un modo efficace e tremendamente autolesionista, autodistruttivo, per opporsi a un sistema che non lascia altre strade, che non concede altre vie per poter essere e sentirsi liberi. Dice Igort, che così mettono in discussione il mito della produttività, che in Giappone è sacro. Tu credi anche - e le parole di Igort rafforzano questa tua idea - che coi loro corpi messi pur sempre a terribile prova, affrontano il modello dell'uomo come macchina da lavoro, come ingranaggio della super-ditta. Il corpo ha un limite, che si esprime con le sue esigenze più basilari, se non ha altre vie; e arriva a introiettare il conflitto irrisolvibile, fino ad ammalarsi, inceppando la macchina produttiva. Questo aspetto li rende, ci rende così simili ai corpi altranimali coinvolti nella macchina zootecnica, mentre ci illudiamo di esserne esenti.