veduta dell'isola, a 3,3 km dal litorale della Croazia |
Poco prima della Giornata della Memoria, ti è capitato tra le mani questo articolo sulla 'isola dei dannati', che hai letto con grande interesse. Che cosa ha scritto, su L'Espresso, Giovanni Cristicchi? E che cosa ha fotografato, sempre su L'Espresso, Giovanni Cocco? Il lager dimenticato di Tito, uno dei gulag più terribili d'Europa. E tu, Giovanni, pure tu, che cosa hai pensato, che cosa hai provato durante la lettura?
"Ci sono luoghi che non hanno bisogno di targhe alla memoria, dove
qualcosa è successo tanto tempo fa, muri che non possono fare a meno di
tacere. Luoghi dove i sassi, se avessero una voce, sarebbero capaci di
raccontare la loro storia. Una storia che ti si attacca addosso come
salsedine e che ti resta dentro come un nodo alla gola che non si
scioglie. E anche se dopo tanti anni la pioggia ha lavato via il sangue
dalle pietre, rimangono parole mute inchiodate alle pareti, che
attendono di essere raccolte."
Questi luoghi sono i lager, presenti a ogni latitudine spazio-temporale: Sono i luoghi dove si crea l'assenza, dove si plasma il nulla, dove sorge l'oblio, in un susseguirsi vertiginoso di ossimori coi loro più che reali e concreti effetti di morte, dolore, tortura (quella tortura di Stato che scrive sui corpi la condanna e la colpa, fino all'auto-accusa).
Su questa isola al largo della Dalmazia settentrionale, il dittatore comunista jugoslavo Josip Broz Tito, dal 1949 al 1956, fece deportare i suoi nemici.
Non solo i suoi avversari politici, ma anche chi fosse anche solo lontanamente sospettato di esserlo.
Anche i suoi stessi combattenti, ufficiali, ex partigiani. Anche studenti, professori, intellettuali, giornalisti, scrittori.
Fu in seguito alla rottura ideologica col comunismo di Stalin che la repressione arrivò, da un giorno all'altro, improvvisa, a devastare vite e famiglie, spazzate via dalla sera al mattino, per sempre.
Di scovare i nemici si occupava la Udba, la polizia segreta. Molti non seppero mai nemmeno il motivo della loro deportazione. Si poteva venire condannati anche solo per aver detto una parola considerata 'di troppo'. Dopo il processo-farsa, toccava il viaggio all'isola, per la 'rieducazione'.
Torture, botte, disidratazione, fame, malattie, tifo, epatite, dissenteria, insolazione. Si soffriva e si moriva così.
Il regime carcerario aveva isolato ciascun prigioniero contro tutti gli altri. Tutti erano soli con se stessi: erano i prigionieri i più feroci aguzzini e i più implacabili delatori, contro gli altri prigionieri. Il sistema giganteggiva monolitico su ciascuno di loro, e per ciascuno di loro c'era la convinta sensazione di essere isolati, circondati da nemici, senza difese né riparo dal dispositivo carcerario, nel quale alle guardie toccava di fare quasi nulla di violento. Bastava la loro presenza, perché i prigionieri si mettessero uno contro l'altro - e tutti contro tutti.
Quelli che - scarcerati - tornavano a casa, venivano evitati da tutti. In più, dovevano firmare un documento in cui si impegnavano a non raccontare mai nulla a nessuno di quello che avevano passato sull'isola. C'era il terrore di essere spiati, persino in casa propria, magari da un proprio familiare.
Ci sono voluti decenni perché la verità di migliaia di storie disgraziate e terribili tornasse alla luce.
Oggi, sull'isola, solo rovine spazzate dal vento e mangiate dalla salsedine. Non è dato sapere quale sarà il destino di queste rovine - che per alcuni dei sopravvissuti dovrebbero diventare un luogo della memoria.
Alla fine della lettura, ti sei sentito catturato da una paura quasi fisica. Paura di cosa? Ti sei chiesto. E hai pensato che fosse la paura di chi è cosciente che questi luoghi non sono mai finiti per sempre. Che possono ripresentarsi in qualsiasi momento della storia, per qualsiasi motivo, o incombente circostanza. Che per finire inghiottiti nel nulla, non serve un motivo valido, vero, reale - posto che ci siano davvero motivi così tremendi da far meritare una sorte simile a qualcuno.
Anzi: questi luoghi non smettono mai realmente di essere presenti. Il gulag, il lager, si abbracciano inestricabilmente tra loro e con il loro prototipo operativo, il loro archetipo: il mattatoio moderno.
Col quale condividono almeno una caratteristica basilare e saliente, un fondamento enorme per il loro funzionamento: la riduzione di ciascun individuo a un unico, isolato, abbandonato, corpo: sola unica carne vulnerabile (il 'possono soffrire?' benthamiano va a dar distorta man forte al panottico proprio da lui progettato). Pertanto, impossibilitata a qualunque azione che non sia il procedere lungo la catena di smontaggio, perdendo via via sangue, pelle, carne. E avendo già perso all'ingresso individualità, autoconsapevolezza, possibilità di esprimere desideri e di esperire sensazioni di sicurezza, di felicità, di appagamento, di crescita, di completezza fisica, mentale, emotiva.
Perciò: hai avuto la paura - quasi un inspiegabile e inquietante presentimento - di poter precipitare un giorno qualsiasi, in un luogo simile. Non è poi così difficile deragliare dai ristretti parametri della 'normale efficienza' della nostra società, dedita al turbo-consumo.
Ti è venuta in mente Hannah Arendt, che nel suo "Le origini del totaliarismo" ha scritto di come lo Stato può diventare Gigante monolitico che sovrasta i microscopici cittadini, senza più alcuna barriera tra di loro (vai a memoria, ovviamente, la lettura risale a tanti anni fa e forse sarebbe da ripetere) e lo Stato medesimo. Ti viene in mente che per creare il moto perpetuo necessario al regime totalitario e per ottenere la sfiducia dei cittadini verso i partiti, verso tutti gli organismi collettivi e statali e partecipativi, non occorre una dittatura conclamata e declamata, ma bastano disorientamento, precarietà delle condizioni di vita quotidiana, mezzi di propaganda e creazione di bisogni consumistici, oltre che di narrazioni pilotate della situazione reale e concreta - narrazioni demagogiche e ideologiche, come l'acqua che il piromane porta all'incendio che lui stesso ha appiccato.
Ti viene in mente che questo sistema si fa strada a piccoli passi, apparentemente scollegati tra loro, usa mezzi che trova già presenti nel tessuto sociale, sia presente che passato e li rielabora.
Solo due esempi, che risalgono all'ultimo scorcio del 2017 - non hai aggiornamenti su come sono poi finite le due vicende.
Sono due fatti che secondo te hanno in comune il tipo di azione che viene intrapresa e il contesto - i rifugiati del tunnel a Gorizia; i cani di quartiere della cittadina di Galatona (non metti link ad alcuna notizia, perché ce ne sono talmente tante che qualsiasi scelta sarebbe arbitraria e perché, quindi, è una ricerca gooogleabile da chiunque abbia quel minimo di dimestichezza con la navigazione internettiana).
C'è qualcuno che ha bisogno di riparo, accoglienza, rifugio, sosta, casa, protezione, qualcosa. Può essere un gruppo di umani; può essere un gruppo di cani. La soluzione che viene scelta, però, non cerca mezzi per risolvere la situazione; ma escogita solo una strategia per eliminare, per nascondere, per eradicare il problema. Il debole, il marginale - qualunque sia il motivo di questa debolezza, di questa marginalità - viene tolto dalla zona visibile, dai luoghi condivisi con i cittadini. Già questo è un passo - non il primo, ma forse già il quarto o il quinto - verso la direzione che ha per meta finale un ambiente totalitario.
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